Le nostre leggi sono adatte all'era dei social?

Nell’agosto dell’anno scorso, il Regno Unito è stato scosso da violente rivolte di matrice razzista scatenate da un tragico episodio avvenuto a Southport, nel Merseyside, a poca distanza da Liverpool: tre bambine sono state uccise durante una lezione di danza, e altre dieci sono state ferite. L’attentatore, un adolescente britannico di origini ruandesi, è stato immediatamente incardinato in una feroce campagna di disinformazione che ha preso il volo online. Sui social sono circolate – mediante centinaia di migliaia di condivisioni – fake news che lo dipingevano come un immigrato musulmano irregolare, dando spazio e corpo a un movente religioso inesistente. Nel giro di poche ore, contenuti virali e teorie cospirative hanno innescato proteste più e meno spontanee e generato disordini in diverse città dell’Inghilterra. I disordini si sono rapidamente trasformati in rivolte – o riots, in lingua locale – con attacchi a centri islamici e negozi gestiti da minoranze etniche. Secondo il rapporto della commissione parlamentare ad hoc che ha indagato sulle violenze, pubblicato il mese scorso, la risposta delle autorità britanniche è stata ostacolata anche da un quadro normativo inadeguato alla fonte del problema: le leggi UK, si legge nel documento redatto, sono risultate «inadatte all’era dei social media». Il rapporto, prodotto da una commissione mista del Parlamento di Londra, sottolinea come la polizia e le autorità locali si siano de facto trovate con le mani legate nel contrastare la diffusione di notizie false e fuorvianti. Le norme sulla libertà di espressione in vigore Oltremanica, pensate per un’epoca pre-digitale, non prevedono strumenti efficaci per intervenire contro la circolazione massiccia e istantanea di contenuti eminentemente falsi, a maggior ragione se tali contenuti risultano condivisi su piattaforme con sede all’estero. Né, hanno puntualizzato i parlamentari, esistono regole chiare che obblighino i social media a collaborare in maniera rapida e risolutiva con le forze dell’ordine nazionali. Il caso dei riots di Southport dimostra una volta di più, e in modo cristallino, quanto sia sottile il confine tra ciò che avviene in rete e conseguenze sulla realtà delle nostre vite quotidiane: una narrazione tossica, nata e cresciuta nel regno degli algoritmi, è riuscita a indirizzare il comportamento di migliaia di cittadini britannici nel mondo fisico. In assenza di un filtro legale o applicato sul versante algoritmico, l’informazione distorta si è trasformata in un catalizzatore di odio. A rimanere è anzitutto una domanda: perché è così difficile aggiornare le leggi? Beh, in primis per la natura trans-nazionale delle grandi piattaforme digitali: Meta, X , TikTok e le altre operano su una scala globale, sfuggendo non solo alle tassazioni meno favorevoli, ma anche alla giurisdizione nazionale. In secondo luogo, ogni intervento normativo in questo campo va necessariamente a toccare il delicato equilibrio tra libertà di espressione e tutela dell’ordine pubblico. Ma non è solo questo: anche in UK esiste una resistenza culturale, radicata nella società, all’idea che lo Stato possa regolare il flusso delle informazioni a diffusione digitale; per qualcuno somiglia pericolosamente alla censura. Eppure, eventi tragici come quello delle violenze della scorsa estate mostrano che l’alternativa – che, di fatto, è lasciare campo libero alle fake news – è ancora più deleteria. Il comitato parlamentare di Londra propone l’introduzione di un quadro legislativo nuovo, che includa una responsabilità estesa per le piattaforme, tempistiche più serrate nell’obbligo di rimozione dei contenuti fuorvianti e poteri speciali affidati al governo in caso di emergenze per l’ordine pubblico. Anche il rafforzamento dell’alfabetizzazione digitale dei cittadini britannici, non propriamente a caso, è indicato come priorità dagli estensori del rapporto. È importante rimarcare che questa vicenda non è un caso isolato: dalle rivolte violente in India e Myanmar alimentate da fake news su WhatsApp, fino all’assalto trumpiano al Congresso americano del 2021, il mondo in cui viviamo ha già pagato un prezzo alto per lo scarto che passa tra tecnologia e diritto. Oggi più che mai, aggiornare la legge significa difendere alcuni bastioni fondamentali della democrazia.

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