Cresce la campagna globale Stop Hate for Profit con cui grande aziende stanno interrompendo gli investimenti pubblicitari su Facebook, Twitter e altri social per spingerli a intervenire con maggiore decisione contro hate speech e razzismo. Tra i brand coinvolti Coca-Cola, Unilever, Verizon, Starbucks e The North Face. Abbiamo chiesto a un esperto di Corporate Reputation e a un avvocato esperto in diritto delle nuove tecnologie un parere sui rischi e le reali motivazioni di questa scelta
"Crediamo che si debba fare di più per creare comunità online accoglienti e inclusive, e crediamo che sia i leader aziendali sia i responsabili politici debbano unirsi per contribuire a un cambiamento reale. Interromperemo la pubblicità su tutti i social media". E' un estratto del "manifesto" della campagna Stop Hate For Profit, avviata online a metà gennaio e già condivisa da oltre un centinaio di brand internazionali, tra cui grossi investitori pubblicitari come Unilever, Coca-Cola, Verizon e Starbucks, che hanno interrotto gli investimenti pubblicitari su Facebook.
Aziende "vittime" dell'odio in rete
La minaccia economica mira a convincere Mark Zuckerberg e altri Ceo a intervenire più duramente di come è stato fatto finora - tra etichette e moderazione dei commenti - per eliminare i messaggi di odio, discriminanti e razzisti dalle piattaforme social. "Le aziende sono le prime a soffrire di questo ecosistema generale fatto di commenti d'odio e insulti", spiega a Sky tg24 Matteo Flora, hacker esperto in reputazione online e professore a contratto in Corporate Reputation presso l’Università di Pavia. "Allo stato attuale qualunque utente può gettare odio online, i brand non sono tutelati, le fake news girano facilmente. Non è un mercato sano su cui spingere qualunque tipo di contenuto, tantomeno se investi milioni di dollari in pubblicità".
Il rischio "stigmatizzazione"
Flora invita a guardare i commenti sotto un qualunque post pubblicitario aziendale per rendersi conto del livello della discussione: "La pubblicità generalista è inquinata dagli insulti indiscriminati; quella mirata e polarizzata funziona invece, ma ha budget molto inferiori. Ecco perché i grandi marchi stanno spingendo questa campagna", spiega. "Aggiungi che degli ottomila inserzionisti di Facebook probabilmente 800, anche meno, rappresentano il 90% e oltre del budget complessivo. Significa che se pochi grossi brand si muovono possono spingere i social ad ascoltarli, e convincere gli altri business a seguirli. Il rischio per un marchio, altrimenti, è di sembrare connivente con i messaggi sbagliati, di essere stigmatizzato".
Un gesto a "forte impatto economico"
Cosa spinge le aziende a cercare nuove tutele in questo contesto? "Principalmente è un tema reputazionale e non legale. Tuttavia, è ovvio che, in caso di illecito, potrebbe essere strategico dimostrare di aver fatto del loro meglio per dissociarsi da tale attività", spiega a Sky tg24 Giuseppe Vaciago, avvocato esperto in diritto delle nuove tecnologie. "Va apprezzata la scelta di interrompere la pubblicità, è un gesto che ha un forte impatto economico sul mercato", aggiunge, "però dubito che potrà reggere nel lungo periodo, proprio perché è un grosso sacrificio per il marketing".
Una chiara definizione di 'hate speech'
Bisognerà vedere se questa campagna riuscirà a cambiare le regole del braccio di ferro tra autorità e giganti social, che da anni cercano un compromesso tra libertà di informazione e tutela della comunità. "'Di certo intanto dobbiamo intervenire in modo deciso e maturo contro l'odio online partendo da una modifica legislativa del reato di diffamazione e ampliando il novero delle fattispecie illecite, con una chiara definizione di hate speech", dice Vaciago, che vede nelle ultime mosse di Facebook & co. alcuni passi verso la responsabilizzazione.
Intelligenza artificiale, un miglioramento?
"Secondo me con questa campagna otterranno i risultati che vogliono", conclude ancora Matteo Flora, "i risultati però non saranno soddisfacenti: l’unica soluzione reale può essere impiegare l’intelligenza artificiale, ma è stato dimostrato che può facilmente sbagliare essendo priva di “contesto" nella selezione dei contenuti”.