Lauryyn: “L’infanzia è l’Itaca verso cui torno per esplorare chi sono oggi”

Musica
Federica De Lillis

Federica De Lillis

In viaggio per incontrare se stessa, spinta da una curiosità che spera non la abbandoni mai, Lauryyn è una giovane cantautrice pugliese che nel suo nuovo album, Aritmia, prodotto da Filippo Bubbico, racconta le oscillazioni emotive che accomunano una generazione “vulnerabile, confusa ma anche consapevole”. L’INTERVISTA

 

Dall’infanzia come Itaca a cui tornare, alle fusa del suo gatto che chiudono l’atmosfera onirica delle dieci tracce dell’album, Lauryyn, nome d’arte di Aurora De Gregorio, racconta un processo creativo che si è alimentato del silenzio estivo della campagna pugliese. Da una profonda riflessione nasce Aritmia, una passeggiata in punta di piedi, in equilibrio su una fune per guardare dall’alto e con lucida consapevolezza il caos delle emozioni, rielaborarle e lasciare fluire.

L'abbiamo incontrata dopo la sua esibizione all'R&B Takeover Fest di Roma, il primo festival dedicato al genere: "Trovo il mio posto in un contesto come questo perché i miei riferimenti predominanti sono il soul, la black music e l’R&B, anche se nel nuovo disco c’è anche tanto altro. Siamo tutti in costante evoluzione, dobbiamo tenere presente che i generi sono solo punti di riferimento da cui partire". 

Per raccontare Aritmia iniziamo dalla fine: Outro è la traccia che chiude l’album e dai primi secondi si distinguono le fusa di un Gatto riprodotte per tutto il brano. Come mai questa scelta?

Quelle che si sentono sono le fusa del mio gatto, Cocca, è con me da 12 anni.

L’idea mi è venuta insieme a Filippo, con cui ho realizzato l’album. Ho da sempre una grande passione per i gatti: li osservo, mi mettono in una condizione di tranquillità emotiva e mi ritrovo molto nel loro carattere, nel loro essere indifferenti e diffidenti all’apparenza, mentre sotto sotto sono animali dolcissimi, che ti cercano, vogliono le coccole. Inoltre, dava alla chiusura un elemento in più di intimità, che è caratteristica del processo di scrittura del disco. L’ho realizzato in un periodo in cui ero in una casa da sola e l’acustica che mi circondava era composta dal mio gatto, le sue fusa, i suoni della campagna in Puglia, fra Lecce e San Cataldo. 

 

Qual è il filo conduttore delle 10 tracce di Aritmia?

Da un punto di vista musicale, la ricerca perché ci sono molti elementi nuovi rispetto al vecchio album che era molto più R&B in senso stretto. Nel disco nuovo parlo di me, anche se l’obiettivo non è far arrivare il mio vissuto, uso la mia esperienza per trattare temi che spero siano universali. 

Viviamo tutti le stesse altalene emotive, da qui il titolo Aritmia, l’irregolarità del battito cardiaco per descrivere un momento della vita in cui si provano emozioni forti. Provare emozioni forti è fondamentale, che siano positive o negative, per scampare al pericolo di appiattirsi. 

Curiosità, ricerca di se stessi e dell’altro è tutto ciò che mi fa vivere intensamente, questa cosa per molti a un certo punto si affievolisce perché si cresce e le cose che prima ti emozionavano non lo fanno più come una volta. 

 

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Nei tuoi brani parli spesso di ricerca che, a volte, approda nel caos senza punti di riferimento. Non sapere dove si sta andando, per te, è una ricchezza o una debolezza?

Il mistero dei processi emotivi è bellezza. In Soliloquio parlo della ricerca continua di una verità, di una soluzione con se stessi, anche per capire il mondo, ma alla fine si arriva a comprendere che non c’è una verità oggettiva. A volte è tutto nelle piccole cose e si parte verso una ricerca costante che approda sempre a se stessi. 

Essere consapevoli che ci manca qualcosa per capirci e per capire il mondo è positivo: farsi domande ci nutre tantissimo. Mi faccio costantemente domande e questo processo di ricerca emotiva mi fa sentire viva. 

 

E in questa continua ricerca, hai la tua Itaca? Il posto in cui tornare alla fine del viaggio?

Cercando dentro di me cose che non capivo mi sono resa conto che più cresco più questo viaggio mi porta verso l’infanzia. Oggi cerco di non mettere una divisione netta tra il passato e il presente. Il passato non aggredisce quello che vivo ma lo traduce, è la chiave di tante cose quindi pensare a come ero, per cosa mi emozionavo, per cosa mi arrabbiavo, mi fa capire molte cose di quello che vivo oggi. La mia Itaca è pensare a tutti i momenti che mi facevano emozionare da piccola. 

©cantelmo_studiocemento

Che rapporto hai con le tue origini? 

Sono molto patriottica [ride]. Sono andata via da poco ma nella mia città [Lecce ndr.] per andare a Milano ma a casa non mi sono mai trovata male. 

Sono molto legata agli ambienti del mio territorio e sono anche quelli delle Itache. 

 

A livello musicale ci sono influenze melodiche che a un primo ascolto potrebbero non essere evidenti ma a cui faccio riferimento. La musica tradizionale salentina è piena di stornelli, cantate femminili in cui la figura della donna è iconica, turbata, delusa dall’amore, rivendica i propri diritti e la propria essenza e in questo mi rivedo molto. 

La traduzione in musica e nella danza è la volontà di esprimersi fino a essere prolissi. fino a perdere il senso della fisicità in balli ipnotici come la taranta. Nel mio modo di fare musica c’è questo sfogo fino all’affanno. Ci sono poi processi che non so spiegare neanche io ma penso sempre che non farei la musica che faccio oggi se fossi nata in un altro posto. 

 

Nonostante questo, in Un Passo esprimi la voglia di allontanarsi da una realtà che ti sta stretta, come mai? 

È comune nella mia generazione sentirsi stretti, indipendentemente dal fatto che tu sia nato in una piccola città o in una grande metropoli. Il sentirsi stretti è una metafora che ognuno poi interpreta a proprio modo. 

Ho scritto quel brano perché non mi sentivo rispecchiata da tutta una serie di modelli e prospettive che trovavo nel posto in cui sono nata, motivo per cui mi sono dovuta poi spostare a Milano. 

 

Dopo Un Passo, ti dirigi a Londra in cerca di te stessa, ti perdi nel caos di una vita dissoluta, e poi approdi a un Soliloquio in cui accetti le tue fragilità. Che bellezza c’è nell’essere fragili?

Secondo me dobbiamo fare una distinzione tra essere sensibili ed essere fragili. Essere sensibili significa essere molto ricettivi, essere fragili invece vuol dire essere più esposti, dà un’idea di vulnerabilità. Chi è sensibile ha i canali emotivi molto aperti e, quando recepisci tanto, a volte è anche più difficile stare al mondo. 

Mi affascinano le persone così, perché è indice di quella curiosità che poi ti porta a essere sempre in un pendolo che oscilla tra lo stare bene nel presente ed essere turbato da domande che ti portano in un altro mondo. È ciò che cerco nelle produzioni musicali, un’atmosfera di sogno. 

 

Essere sensibili è una grande cosa, sempre facendo attenzione a non farsi mangiare da questo lato, io tutt’oggi faccio fatica e la musica è un processo che mi aiuta tanto. 

 

In Doppio Fine dici a qualcuno che le tue parole sono autentiche, che non c’è niente tra le righe. Da chi non ti senti capita nelle intenzioni?

Credo che capiti a molte persone in alcuni contesti di essere fraintese. Sono situazioni in cui l’interlocutore sessualizza qualsiasi gesto, capita purtroppo più alle donne. Ho voluto trattare la situazione in modo sarcastico, per banalizzare lo stereotipo del “ganzo”. 

 

Il tema non è banale ma il brano cerca di prendere con leggerezza una situazione in cui l’interlocutore legge tra le righe cose che non ci sono in maniera ingenua, buffa, trovando in qualsiasi gesto, anche lo spostarsi la sciarpa, qualcosa di sexy. 

 

Il paradosso sta nel fatto che mi prendo gioco di questi fraintendimenti in un pezzo molto sexy che dice: “Non sto cercando di sedurti, stai leggendo cose che non esistono” e te lo spiego in modo sensuale perché tu ti stai prendendo gioco di me, non mi fai essere me stessa, allora anche io ti prendo in giro.  

 

“Io stessa provo a finirmi” racconti in Alter ego. Da dove viene questa tendenza all’autosabotaggio?

Domanda che necessita una seduta dallo psicologo [ride]. Non ci sono mai andata ma vorrei iniziare, potrebbe aiutarmi tanto. È una cosa che faccio da sempre. Il brano si chiama così perché non volevo sembrasse una canzone che parla d’amore. Nel testo mi riferisco a una persona e volevo fosse chiaro che non si tratta di una storia finita male con qualcuno che non faceva al caso mio. Parlo a me stessa, a una me stessa che mi sabota di continuo e che cerco a volte di silenziare per ristabilire dei ruoli. Quella Alter Ego fa parte di me, non voglio distruggerla ma non deve prendere il sopravvento. 

 

Sindrome dell’impostore, sentirsi stretti, paranoie… In questo album ci sono molti aspetti in comune con le persone della tua età. come descriveresti la tua generazione?

Vulnerabile, consapevole e confusa. 

Gli ultimi due sembrano in contraddizione ma credo che per molti aspetti siamo una generazione davvero tanto consapevole rispetto alle precedenti, nonostante siamo immersi in una grande confusione. 

 

Qual è il tuo featuring dei sogni?

Direi Sampha o Solange come internazionali perché sono anche reference musicali che ho da anni. Pensando al panorama italiano, ultimamente in testa ho tre nomi: Marco Castello, Joan Thiele e La Niña, sono progetti con cui mi piacerebbe collaborare. Guardo sempre verso persone che hanno stili lontani dal mio, è bello innamorarsi di un mondo totalmente diverso che possa attivare la curiosità. Mi stimola fare cose che mi possano portare fuori dalla mia zona di comfort, apre al rischio di vedere una me diversa, è una cosa che mi nutre molto. 

 

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