La band britannica ha deciso di rilasciare un sacco di materiale risalente al 1972, l’anno in cui iniziava a prendere forma quello che sarebbe diventato forse il lavoro più famoso del gruppo. Alla base della decisione di pubblicare tanta musica c’è stata soprattutto la voglia di evitare che un tale patrimonio diventasse di dominio pubblico. Questa operazione non va tuttavia derubricata a mera mossa commerciale, visto quanto certe rarità possono essere utili per comprendere al meglio l’evoluzione dei Pink Floyd
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È arrivato il Natale, un po’ in anticipo per i fan dei Pink Floyd. La band britannica ha deciso infatti di pubblicare a sorpresa 18 concerti e una mini-raccolta di cinque rarità. Si tratta di materiale risalente al periodo a cavallo tra l’uscita di Obscured By Clouds e quella di Dark Side of the Moon, che apparve ufficialmente sul mercato il 17 marzo del 1973. Dopo aver pubblicato già sotto le feste l’anno passato diversi bootleg (sempre senza annunciarlo prima), la band rinnova quindi quella che ormai rischia di diventare una tradizione a tutti gli effetti. Si tratta di un’operazione che, al netto della qualità ondivaga delle registrazioni, si dimostra comunque anche questa volta molto affascinante. È emozionante in molti casi intuire come si sia arrivati per gradi alla creazione di un disco iconico come The Dark Side of the Moon ma la domanda sorge spontanea: perché i Pink Floyd, e tanti stimati loro colleghi, decidono di rilasciare praticamente senza promozione e senza troppa speranza di guadagno tanta musica?
Tutta colpa di una legge sul copyright
La decisione di rendere disponibili tante registrazioni che rischiavano di ammuffire negli archivi non è figlia solo della generosità dei membri del gruppo. Come anche altri artisti più o meno coetanei, i Pink Floyd si sono trovati davanti a una scelta netta, quasi un aut-aut: pubblicare tutto quel ben di dio fatto di bootleg e outtake o lasciarlo diventare di pubblico dominio. È quel fenomeno che sulle pagine di Variety hanno chiamato “copyright dump” (discarica del copyright): in pratica una legge europea dai contorni poco definiti implica che l’autore perda i diritti su tutta la produzione artistica che non è stata pubblicata nei precedenti cinquant’anni. Un bel problema per chi, come i grandi del rock, ha iniziato a produrre musica già prima degli anni Settanta e che ora rischia di perdere una discreta fetta di guadagni potenziali. Per salvaguardare un tale patrimonio negli ultimi anni abbiamo visto di tutto: dalle “copyright collection” di Bob Dylan, rarità vendute in pochissime copie e solo nel Vecchio Continente, all’apparizione su internet di decine e decine di brani ed esibizioni live degli Stones (poi rimosse dalla rete in neanche 24 ore a fine 2019). Tutti si industriano come possono per evitare la mannaia europea e ognuno trova la piattaforma più congeniale ai suoi scopi, basti pensare alla raccolta Bootleg Recordings 1963 dei Beatles che metteva assieme 59 abbozzi di canzoni disponibili solo su ITunes.
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Rovistando negli archivi
Non ci vuole molto a capire quale sia il vero tallone d’Achille di simili operazioni un po’ forzate: la qualità del suono. Un problema ricorrente e forse inevitabile quando si decide di riversare sul mercato in fretta e furia un qualcosa che è stato registrato ormai quasi mezzo secolo fa. La difficoltà a mantenere uno standard sonoro accettabile si sente anche in quest’ultimo tentativo dei Pink Floyd. La band di Roger Waters e David Gilmour è sempre stata attentissima, quasi maniacale, nella sua ricerca del miglior suono possibile e forse anche per questo si tende a notare ancora di più qualunque imperizia. Non sorprenderebbe sapere che alcuni dei concerti siano stati riportati alla luce registrando direttamente da un vecchio vinile dell’epoca, visto che in più parti sembra quasi di sentire addirittura il graffio della puntina nei solchi. Una parte di questi 18 live è poi inoltre incompleto, con evidenti salti e veri e propri “buchi”. È tuttavia impossibile non percepire l’inevitabile fascino di quello che possiamo considerare quasi un tentativo di fare “archeologia musicale”.
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Una luna oscurata dalle nuvole
Insieme ai quasi 20 concerti è stato proposto anche un EP di cinque tracce, intitolato semplicemente Alternative Tracks 1972. Si tratta alla fine della fiera di quasi un giorno intero di musica rilasciato sulle piattaforme e aiuta a restituire un’idea più o meno attendibile di chi erano i Pink Floyd a inizio anni Settanta. Waters e soci si trovavano in quel periodo in mezzo a un guado, a metà tra Obscured By Clouds e quello che sarebbe diventato il loro capolavoro. I concerti (tra cui spiccano le quattro serate al Rainbow di Londra) ci raccontano un modo diverso di fare live, in cui la band non si limitava solo a proporre le parti forti del suo repertorio ma sperimentava anche idee e suggestioni ancora sconosciute al suo pubblico. Oggi è molto meno comune che questo accada, anche perché presentare qualcosa di inedito sul palco implica il rischio che tutto il materiale finisca su internet prima del tempo, magari registrato alla meglio da un telefonino. Ai tempi d’oro dei Pink Floyd non si correva questo pericolo e la band ne approfittava, testando spesso e volentieri soluzioni nuove. È sicuramente interessante vedere The Dark Side of the Moon letteralmente “prendere forma” davanti al suo pubblico, con brani che vengono improvvisati o presentati in una maniera diversa da quella divenuta poi standard (come Money, che in uno dei concerti si arricchisce di uno spazio dedicato alle percussioni poi tagliato). Anche le cinque rarità incluse nell’EP sono di fatto delle versioni alternative di brani poi inseriti in The Dark Side of the Moon, anche se non mancano pure qui le sorprese.
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I remix misteriosi e la voglia di restare attuali
Curiosa e da raccontare un po’ a parte è la scelta di inserire in Alternative Tracks 1972 due remix trance di Speak To Me / Breathe (In The Air) e Any Colour You Like. Non si sa chi sia l’autore di queste coraggiose rivisitazioni. Qualcuno giura che dietro ci siano i grandi nomi del genere ma molti hanno avanzato l’ipotesi che il “remixatore misterioso” sia in realtà un dj italiano, che aveva approfittato della maggiore libertà garantita durante gli anni Novanta in termini di diritti d’autore. Sia come sia, anche certi esperimenti contribuiscono a costituire il fascino di questo regalo di Natale inaspettato. Benché alla base ci siano in primis inevitabilmente interessi economici, va comunque ricordato che i Pink Floyd ci tengono sempre molto a valorizzare il loro catalogo, spesso anche provando a rimodernare e riadattare i propri cavalli di battaglia. Lo ha fatto di recente Roger Waters proponendo una nuova versione di Comfortably Numb o riportando The Wall in tour. D’altra parte anche operazioni come queste contribuiscono in fondo a ricordarci la cosa più importante: i Pink Floyd sono ancora qua e combattono insieme a noi, oggi come mezzo secolo fa.