24mila baci compie 60 anni: storia di un pezzo che sconvolse l'Italia

Musica

Giuseppe Pastore

Il 27 gennaio 1961 Adriano Celentano "incendiava" il Festival di Sanremo con un'esibizione storica, provocatoria, lontanissima dai cliché sulla musica italiana del bel canto: un successo strepitoso che dura ancora oggi

Il Festival di Sanremo detiene quasi il monopolio dei cosiddetti “momenti-shock” che hanno cambiato il gusto del pubblico e la storia della musica italiana: un evento in diretta, guardato nello stesso momento da milioni di persone, si presta perfettamente allo scopo. In questa collezione di frammenti-cult che va da Domenico Modugno e Loredana Bertè fino a Morgan e Bugo, un posto d'onore spetta sicuramente a quanto avvenne sul palco del Salone delle Feste del Casinò pochi minuti dopo le 21 del 27 gennaio 1961: sessant'anni fa, Adriano Celentano eseguiva per la prima volta 24mila baci, una delle canzoni italiane più famose nel mondo (qui sotto in una scena di Cold War, il film del polacco Pawel Pawlikowski candidato a tre Premi Oscar nel 2019, in una versione eseguita da Joanna Kulig).

La parola shock già compariva letteralmente nel testo del pezzo che due anni prima aveva reso celebre il 23enne Celentano, Il tuo bacio è come un rock, la prima canzone della storia della musica italiana a fare un uso largo e compiaciuto di termini anglofoni come appunto rock, ring, swing, diventando subito accattivante per il pubblico giovane che sognava l'America. 23 anni, cresciuto al numero 14 di via Cristoforo Gluck a due passi dalla Stazione Centrale di Milano, ex commesso di un negozio di orologi in via Correnti, Celentano si rivelò al grande pubblico vincendo il Festival Adriatico della Canzone di Ancona (altri tempi...) e poi facendo il bis con Ciao ti dirò. Un giornale borghese come “L'Europeo” gli dedicò un servizio fotografico di due pagine in cui era ritratto durante un'esibizione allo Smeraldo di Milano, con la folla fuori dal teatro capace di bloccare il traffico e anche danneggiare qualche automobile. Lo aveva voluto incontrare persino Federico Fellini per proporgli una particina all'interno de La dolce vita, mimandogli la sequenza a cui avrebbe partecipato, in cui avrebbe cantato Ready Teddy di Little Richard nel locale dove Marcello Mastroianni accompagna Anita Ekberg.

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Insomma era tutto apparecchiato per l'exploit all'interno di un Festival “di rottura” a cominciare dalla formula bislacca per i tempi: quattro serate spalmate nell'arco di dieci giorni, con voto finale affidato al pubblico sovrano attraverso le schedine dell'Enalotto e ben ventiquattro (numero ricorrente) canzoni in gara, con nomi eccellenti come Gino Paoli, Umberto Bindi, Giorgio Gaber, Bruno Martino, Edoardo Vianello, Milva e soprattutto Mina, favoritissima con l'accoppiata Le mille bolle blu e Io amo tu ami (all'epoca i cantanti potevano portare più di una canzone in gara). Purtroppo la tensione giocò uno scherzo terribile all'ancora giovanissima (20 anni) Tigre di Cremona: durante l'esibizione di Io amo tu ami un acuto le venne stroncato da un colpo di tosse improvviso, portandola alle lacrime e facendole abbandonare il palco ancora prima della fine della canzone. Un trauma che le fece giurare di non mettere mai più piede a Sanremo, proposito rigorosamente mantenuto nei successivi sessant'anni.

 

Ma torniamo a Celentano, che in quei giorni stava svolgendo a Torino il servizio militare e per tornare a Sanremo anche la settimana successiva avrebbe avuto bisogno di una dispensa speciale firmata dal Ministro della Difesa Giulio Andreotti in persona, convinto dal grande successo di vendite di 24mila baci. La canzone fu un clamoroso strappo alle convenzioni della musica sanremese a cominciare dal testo, un inno all'amore fisico che doveva essere sfuggito alla severissima commissione selezionatrice: “Niente bugie meravigliose/frasi d'amore appassionate/ma solo baci chiedo a te...”. Uno shock (appunto) per il pubblico italiano, che si apprestava a guardare e ascoltare il solito Festival rassicurante, colmo di canzoni sciroppose. Per non parlare della messa in scena: una sequenza di “urli e piroette, singulti e dimenamenti” come scrisse il Corriere della Sera, espressione del pubblico più conservatore, mentre i giovani impazzirono per quelle movenze dinoccolate che facevano di Celentano uno dei sosia più accreditati del grande Jerry Lewis, e gradirono anche il momento discretamente iconoclasta in cui Adriano volgeva la schiena al pubblico, in totale contrapposizione con la grammatica e il galateo televisivo.

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24mila baci era stata scritta e composta, oltre che da Celentano, anche da due registi, Piero Vivarelli (regista di moltissimi “musicarelli” dell'epoca) e Lucio Fulci che, prima di diventare uno dei maestri dell'horror all'italiana, nel 1960 aveva diretto Urlatori alla sbarra, film spartiacque per la storia della nostra musica leggera per la presenza di tanti giovanissimi divi, da Mina e Joe Sentieri allo stesso Celentano. Il regolamento del Festival prevedeva l'esibizione in coppia; l'ingrato ruolo di “lato B” dello straripante Adriano toccò a uno sfortunato Little Tony, suo grande amico, la cui versione sarà totalmente eclissata da quella di Celentano, che venderà in Italia mezzo milione di copie, sfonderà anche in Francia nella versione di Johnny Halliday (24.000 baisers) e a fine 1961 sarà ottava nella classifica dei dischi più venduti (comandata da un'altra hit del Molleggiato, Nata per me, con cui arriverà secondo a Canzonissima).

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Ma quel Festival, alla fine, chi lo vinse? Com'è spesso successo, la canzone più famosa e magari più provocatoria dovette accontentarsi della seconda posizione, lasciando il gradino più alto del podio alla non memorabile Al di là, eseguita da Luciano Tajoli e Betty Curtis, finita ben presto nel dimenticatoio nonostante la firma eccellente di un 24enne Mogol. A chiosa finale di un'edizione di rottura, in cui fece “scalpore” anche il vistoso anello al mignolo di Umberto Bindi (che per il semplice fatto di essere omosessuale cadrà vittima dell'ostracismo dalla RAI per oltre trent'anni), quotidiani come l'Osservatore Romano, scandalizzati da troppa modernità, scrissero: “Un Festival che vorremmo dimenticare al più presto”. E invece no: sessant'anni dopo, il suo ricordo è ancora qui.

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