Vita privata, Jodie Foster tra ipnosi, misteri e traumi interiori. La recensione del film
CinemaPresentato al Festival di Cannes e alla Festa del Cinema di Roma, Vita privata arriva nelle sale italiane l’11 dicembre distribuito da Europictures. Jodie Foster interpreta una psichiatra sconvolta dalla morte di una paziente, innescando un’indagine che diventa un viaggio nell’inconscio tra ipnosi, colpa e desideri rimossi. Rebecca Zlotowski firma un mystery elegante sostenuto da un cast francese intenso e magnetico
Jodie Foster e il giallo dell’anima: quando l’indagine inizia dallo specchio
Ci sono film che avanzano in punta di piedi e altri che irrompono come epifanie improvvise, simili ad astri che decidono di riaccendersi dopo millenni di quiete. Vita privata di Rebecca Zlotowski appartiene alla seconda categoria. Non si limita a raccontare una storia: la attraversa, la scava, la usa come vettore per penetrare nelle zone d’ombra di chi la abita. Non a caso il lungometraggio inizia con un’inquadratura della tromba di una scala, un immagine quasi astratta in cu Hitchock danza con Escher
Lilian Steiner, psichiatra americana trapiantata nella Parigi bene, è una Jodie Foster magnetica, capace di trasformare ogni microespressione in un’indagine parallela. La morte improvvisa della paziente Paula non è solo un lutto: è un varco, una deflagrazione intima che mette la protagonista davanti a una verità che non sa ancora nominare. Foster dosa con precisione fragilità, humour e sgomento; il suo pianto incontrollabile, quasi autonomo, ha il sapore di una confessione anticipata.
Attorno a Lilian, Zlotowski costruisce un coro greco di sospetti e ferite: Mathieu Amalric è un Simon ambiguo, oscillante tra dolore autentico e manipolazione emotiva; Luàna Bajrami colora il personaggio della figlia Valérie con una malinconia misteriosa , quasi ancestrale.
Il film parte come un giallo, ma il vero mistero non è la morte di Paula: è la frattura interiore di Lilian, lei che osserva gli altri senza riuscire a vedere se stessa. Zlotowski non cerca colpevoli: cerca crepe. E le illumina con una grazia precisa e crudele.
L’intimità come enigma: la “vita privata” secondo Zlotowski
la regista spiega che il titolo Vita privata non indica soltanto la sfera intima, ma anche una “vita privata della vita”: un’esistenza amputata, sottratta, qualcosa che è stato tolto e che continua a pulsare come un dolore fantasma.
È un concetto che aderisce perfettamente al personaggio di Lilian, donna composta e razionale che improvvisamente scopre quanto la propria identità professionale abbia finito per mascherare una parte di sé.
Zlotowski costruisce il film come un campo di tensioni: tra ciò che crediamo di sapere e ciò che gli altri vedono, tra il ruolo pubblico e la fragilità privata, tra l’ascolto professionale e il silenzio dell’anima. È in questa oscillazione — intellettuale, emotiva, femminile — che l’indagine di Lilian diventa un’autopsia del proprio io.
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Ipnosi, visioni e un cast che vibra come un’orchestra in trance
Il film cambia pelle — e diventa più audace — con l’ingresso di Jessica, l’ipnotista interpretata da una magnetica Sophie Guillemin. È lei a guidare Lilian in una seduta che sconfina nel visionario: una regressione nella Francia occupata, dove passato e presente si sovrappongono come lastre fotografiche imperfettamente allineate. Non è un espediente narrativo, ma un’incursione nell’inconscio.
Nel pressbook, Zlotowski rivela che parte di questa sequenza è costruita con immagini generate dall’intelligenza artificiale, concepite come una “porta nascosta” dentro il film — un varco quasi subliminale aperto solo a chi desidera attraversarlo.
È un’idea potentissima: una memoria artificiale che rappresenta una memoria distorta. Il sogno diventa così uno spazio contaminato, dove ciò che Lilian non ricorda — o non vuole ricordare — emerge in forma di visione manipolata.
Attorno a Foster, il cast francese si muove come un ensemble teatrale:
Daniel Auteuil — ex marito, affetto stropicciato, ironia discreta — offre una delle prove più delicate della sua carriera recente. Con Foster valla un valzer sentimentale fatto di attrazione, resa, nostalgie che insistono.
Vincent Lacoste, nel ruolo del figlio Julien, porta un dolore schermato, un rifiuto che sembra proteggere più che ferire.
Vita privata è un cocktail volutamente sbilanciato: dramma, humour, ipnosi, soprannaturale, relazioni spezzate. Zlotowski li mescola con la precisione di una bartender poetica, trasformando il film in un’esperienza sensoriale più che narrativa.
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La colonna sonora come personaggio aggiunto tra pop e classica
La musica del film è una seconda sceneggiatura: un controcampo emotivo che accompagna Lilian più di quanto facciano i personaggi che le orbitano attorno. Zlotowski costruisce una colonna sonora schizofrenicamente armoniosa, dove Talking Heads e Schubert convivono senza inciampare: Psycho Killer e la voce nevrile di David Byrne introducono la vicenda, mentre Auf dem Wasser zu singen sembra emergere da una memoria che Lilian non ricorda di avere. Mozart sfuma in Vivaldi
Accanto ai brani classici e pop, risuonano pezzi più obliqui — Kinderfotzenberg Nr. 2, Don’t Go to Strangers, Matza Balls, Terror Management — che raccontano molto più di quanto la protagonista sia pronta ad ammettere.
Non è una playlist: è un rituale. Una forma di ipnosi che avvicina Lilian al proprio sottosuolo. La colonna sonora diventa così l’inconscio del film: un luogo dove colpa, desiderio e rivelazione si accordano come strumenti di un’orchestra che suona per ferite ancora aperte.
Il finale come ferita aperta: Zlotowski alchimista dell’emozione
Il finale non cerca lo shock: preferisce lasciar evaporare i nodi narrativi per concentrarsi su quelli emotivi. È una conclusione che privilegia la risonanza sulla soluzione, l’ascolto sulla risposta. Zlotowski disegna così la metamorfosi di Lilian: una donna che scopre quanto la propria compostezza fosse solo una forma di autodifesa.
Il cast la accompagna in un crescendo misurato: Amalric è il presunto colpevole, Auteuil un affetto che resta, Bajrami e Lacoste le ferite della generazione successiva, Guillemin la custode del rito.
E poi c’è Jodie Foster. Con un francese limpido, un’ironia sottilissima e una vulnerabilità esposta senza pudore. Non interpreta Lilian: la attraversa, la ascolta, la lascia irrisolta quel tanto che basta perché ci riconosciamo in lei. È una sacerdotessa del dubbio, una discepola della psicanalisi che naviga tra colpa e rinascita con un’eleganza inquieta.
Vita privata resta addosso non per ciò che svela, ma per ciò che lascia in sospensione. È un film che non consola, ma illumina: una ferita che brilla al buio, come una stella morta che continua a farsi vedere da chi sa guardare.