The Running Man, Glen Powell e Edgar Wright rileggono Stephen King. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

In The Running Man, adattamento del romanzo di Stephen King e al cinema dal 13 novembre, Edgar Wright firma un action distopico che unisce reality mortale, satira e adrenalina. Glen Powell interpreta un Ben Richards più umano rispetto alla versione di Schwarzenegger, braccato da killer professionisti. Con Brolin, Domingo, Jones, Pace e Cera, il film riflette sul potere dei media e sulla società dello spettacolo.

Un long drink distopico servito da Edgar Wright

Prima di addentrarci nel film, va ricordato che The Running Man è il nuovo adattamento del romanzo di Stephen King: un film del 2025 diretto da Edgar Wright con Glen Powell, che porta l’action distopico nel cuore della nostra epoca dominata dai media

C’è un momento, guardando The Running Man, al cinema dal 13 novembre 2025, in cui ti chiedi se non sia tutto un gigantesco long drink servito da Edgar Wright: ghiaccio tritato di satira, un goccio di paranoia sociale, una spruzzata di nostalgia anni ’80 e poi lui, Glen Powell, shakerato come il gin e la vodka in un Vesper Martini.
Non è un cocktail da aperitivo preso in un bar dalle luci soffuse: è un drink forte, da bere rapido, che pizzica la gola e lascia in bocca il retrogusto velenoso della nostra contemporaneità.

Qui Wright — che torna al cinema con un nuovo adattamento dal romanzo The Running Man di Stephen King — evita l’ennesimo remake del film con Schwarzenegger e abbraccia finalmente lo spirito distopico e feroce del libro. Quando King scriveva questa storia, “2025” sembrava un futuro remoto; oggi, invece, assomiglia inquietantemente al nostro presente.

Un Ben Richards più umano (e meno bodybuilder)

Partiamo dal protagonista del film 2025 diretto da Edgar Wright: Glen Powell.
Non ha la muscolarità mitologica di Schwarzenegger — ma onestamente, chi ce l’ha? — e Wright lo sa bene. Per questo lo trasforma in un eroe più vicino all’Harrison Ford de Il Fuggitivo, di Blade Runner o di Indiana Jones: un uomo che inciampa, suda, ferisce e si rialza, più vulnerabile e quindi più umano.

Powell è il lavoratore schiacciato dalla vita che diventa bersaglio: un uomo qualunque trascinato dentro un reality show mortale che promette un miliardo di dollari in cambio della sopravvivenza. Un gioco spietato dove i cacciatori sono star dello spettacolo, i droni inseguono ogni respiro e il pubblico applaude a ogni colpo sparato.
Ed è proprio perché non è Schwarzenegger che questo Ben Richards funziona: è l’eroe fallibile che ci meritiamo oggi.

Approfondimento

The Running Man, il trailer del film con Glen Powell

The Running Man: la trama del film tratto da Stephen King

The Running Man è il programma più seguito al mondo: un reality estremo in cui i “Runner” devono restare vivi per trenta giorni mentre killer professionisti li braccano in diretta. Nessuna morale, solo sangue e share.

In questo inferno televisivo viene spinto Ben Richards (Powell), che accetta di partecipare per salvare la figlia malata. A convincerlo è Dan Killian (Josh Brolin), produttore carismatico e spietato, capace di trasformare ogni sofferenza in un picco di ascolti.

Ma Ben non segue il copione. Corre, lotta, resiste. E proprio questo lo trasforma in un fenomeno mediatico: il pubblico lo acclama, gli ascolti esplodono, la narrazione si ribalta.
Più diventa popolare, più il gioco si fa mortale: Richards non combatte più solo contro i suoi cacciatori, ma contro una nazione che pretende la sua caduta come rito collettivo.

Approfondimento

The Running Man: al cinema con Glen Powell

Un reality che assomiglia troppo al presente

La forza del film non sta solo nell’azione, ma nel modo in cui Edgar Wright aggiorna l’immaginario di Stephen King e lo trasforma in un commento feroce sulla nostra epoca.
Fake news che diventano deepfake, droni che filmano ogni respiro, montaggi che costruiscono eroi e villain come nelle trasmissioni di oggi: la distopia di The Running Man finisce per essere un riflesso deformante della nostra realtà.

Colman Domingo è uno showman satanico che trasforma la violenza in intrattenimento patriottico, mentre Josh Brolin orchestra il massacro come un direttore artistico del caos.
E intorno a loro una folla ipnotizzata, assetata di adrenalina, che guarda senza più distinguere il vero dal montato.

The Running Man: cast e personaggi che sostengono la corsa

Se Powell è il centro pulsante, il cast secondario è il sistema nervoso del film di Edgar Wright.
Josh Brolin è Dan Killian: un demiurgo dell’audience, capace di condannare sorridendo.
William H. Macy è Molie Jernigan: fragile e ambiguo, sempre sul confine tra aiuto e tradimento.
Lee Pace è Evan McCone: un cacciatore scultoreo, glaciale, elegante come un assassino di lusso.
Michael Cera è Elton Parrakis: un ribelle esitante, un glitch umano che riporta ossigeno nella distopia.
Emilia Jones è Amelia Williams: la civiltà presa in ostaggio, la crepa emotiva che incrina il meccanismo.

È un cast che dà vita a un mondo crudele dove ogni volto è un algoritmo morale: calcolo, paura, vanità, violenza, compassione. Nessuno è innocente.

La regia di Edgar Wright: una danza elettrica

Wright dirige come se la camera fosse un secondo concorrente: scivola, salta, corre, precipita.
Il ritmo richiama Baby Driver, ma con una vena più cupa; un po’ Scott Pilgrim, un pizzico Hot Fuzz, meno ironia e più rabbia sociale, e un rimando alle atmosfere darl di Ultima notte a Soho
Il risultato è un’opera che unisce action, satira e critica ai media, in un linguaggio che sembra un videogame open world dove ogni strada può essere un vicolo cieco.

Dal romanzo di King al film 2025: un’eredità che veglia

Stephen King sapeva che The Running Man non era il suo romanzo migliore, ma conteneva un’intuizione fondamentale: la TV come macchina di manipolazione.
Wright la raccoglie, la attualizza e la rende ancora più inquietante grazie a deepfake, droni e social.
Non punta al capolavoro, ma consegna un film distopico solido, sorprendente, guidato da un Powell maturo e da un cast che funziona come un’orchestra cinica.

Un cocktail chiamato “The Running Spritz”

The Running Man non è destinato ai libri di storia del cinema, ma è uno di quei film che bevi d’un fiato come un cocktail inventato per lui: The Running Spritz.
Base amara (la distopia), liquore frizzante (l’adrenalina), scorza agrumata (la satira) e una bruciatura finale che resta sulla lingua come un avvertimento.

Quando finisce, ti lascia una domanda semplice e terribile:
cosa siamo disposti a guardare pur di non spegnere lo schermo?

Ci osserva mentre lo osserviamo.
Forse è questo il suo potere più affilato.

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