Un film fatto per Bene, recensione di un metacinema anarchico dedicato a Goffredo Fofi
CinemaUltima presenza italiana in concorso alla Mostra di Venezia, l’opera di Franco Maresco si trasforma in un labirinto anarchico che convoca lo spettro di Carmelo Bene e riflette sull’impossibilità stessa dell’arte. Tra ciak interrotti, visioni surreali, invettive sulfuree e memorie di Cinico Tv, prende forma un lungometraggio feroce e surreale, un Helzapoppin tragico e visionario che mescola ironia e disperazione, nelle sale italiane dal 5 settembre con Lucky Red
Un film fatto per Bene è un’opera mutante, un Giano bifronte, una creatura mitologica che cambia volto a ogni sequenza. A tratti sembra girato dallo stesso Carmelo Bene, con visioni abbacinanti che evocano il suo Salomè del 1971 (quasi ti aspetti Giovanni Davoli nei panni di Giovanni Battista, pronto a insultare in dialetto e concupire Donyale Luna). In altri momenti, dietro la macchina da presa pare esserci Giuseppe da Copertino, il frate che volava tanto citato da Bene: non a caso il film finisce tra le nuvole, con la soggettiva di Maresco che volteggia nel cielo e chiede quanto ha fatto il Palermo.
Un film che implode e rinasce
La genesi del film è già racconto: un set interrotto, i produttori esasperati, Maresco che grida al “filmicidio” e sparisce. Umberto Cantone, nei panni di sé stesso, diventa investigatore surreale alla ricerca dell’amico-regista. A Palermo, all’Hotel Europa, scopre che Maresco si faceva sempre tagliare i capelli nella stanza numero 50. Intorno, personaggi grotteschi: un portiere che parla di paure segrete, un autista devoto che recita in loop preghiere e Hallelujah. Sembra più un esorcismo che una produzione.
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Carmelo Bene, spettro e detonatore
Il titolo è un doppio fondo: un film fatto bene, ma soprattutto fatto per Bene. Carmelo Bene è presenza e assenza, fantasma che attraversa lo schermo. La sua voce ritorna con Majakovskij (In morte di Esenin), e il suo pensiero fa da detonatore: “Il cinema è la controfigura di sé stesso”. Maresco ne fa tesoro: il suo film non riproduce la realtà, la sfigura, la storpia, la reinventa come parodia sacrilega.
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La Morte gioca a scacchi
Antonio Rezza, nei panni della Morte, reinterpreta la partita a scacchi del Settimo Sigillo. Intorno, attori che recitano da cani, ciak infiniti, piani di produzione che crollano. Andrea Occhipinti, produttore e psichiatra involontario, sbotta: "Maresco non ha bisogno di un produttore ma di uno psichiatra". Eppure, come dirà lui stesso, “le cose non vengono bene se non si soffre”.
Helzapoppin cinico
Il film centrifuga tutto: un nano e un pulcinella danzano davanti a un falò, un asino chiamato Carmelo irrompe come epifania, in un teatro palermitano gli attori ripetono ossessivamente “eufrasio”. Il ricordo di Cinico Tv, le ombre di Ciprì, il programma Intervallo Notte, tutto si mescola. Maresco tortura Francesco Puma nella sua smania d’attore, scaglia invettive contro Gigi Marzullo e ci ricorda, con Céline, che “la cosa più terribile è morire senza aver capito che gli esseri sono completamente fottuti”.
Se fosse un cocktail
Se Un film fatto per Bene fosse un cocktail, sarebbe un Martinez dell’Inferno, un bicchiere che profuma di Sicilia e di eresia. La ricetta parte da un vermouth rosso cupo, quasi liturgico, che tinge il vetro come fosse sangue rappreso. Si aggiunge un gin distillato agli agrumi di Siracusa, brillante e pungente come un’invettiva di Carmelo Bene. Poi arriva la follia: un ridotto di Nero d’Avola, sciroppo denso e violaceo, che porta in sé il respiro della terra e il fumo dell’Etna.
È un drink che incendia le labbra e lascia un retrogusto di cenere. Un cocktail che non consola, non rinfresca, ma avvelena e insieme ipnotizza. Potresti berlo solo in un bar clandestino di Palermo, servito da un nano e un pulcinella che danzano davanti a un falò, mentre sullo schermo passa in loop Cinico Tv.
Un sorso ed è già delirio: il Martinez dell’Inferno è un inno alla contraddizione, al piacere che ferisce, al caos che si fa arte. È il calice che Carmelo Bene avrebbe rovesciato con una risata sguaiata, e che Maresco, con aria sardonica, ti offrirebbe dicendo: “le cose non vengono bene se non si soffre”.
Una lavorazione da calvario
Il film porta con sé il peso di anni di conflitti. Maresco pretende dedizione assoluta, travolge i produttori con ciak infiniti, ritardi, ossessioni. Andrea Occhipinti confessa di aver creduto che il film non sarebbe mai stato terminato, eppure eccolo qui, vivo e pulsante, come un miracolo. Per Maresco, l’arte non è mai compromesso: è scontro, sofferenza, ferita. Un calvario che si trasforma in epifania.
Lo stile: luce e suono della disperazione
La fotografia di Alessandro Abate sembra scolpire il buio palermitano, i volti scavati, le rovine teatrali. Le musiche di Salvatore Bonafede, intrise di jazz e malinconia, accompagnano lo spettatore come un requiem spezzato. I suoni raccolti da Luca Bertolin e compagni sono rumorosi, disturbanti, volutamente imperfetti: il fruscio, la distorsione, il microfono che cattura troppo, diventano parte del linguaggio. Non è pulizia, è verità sporca.
Dedicato a Goffredo Fofi
Il film è dedicato a Goffredo Fofi, saggista, giornalista, intellettuale militante, grande estimatore di Bene e Maresco, scomparso l’11 luglio. La dedica suggella la natura dell’opera: un atto di memoria e d’amore, velenoso e necessario, rivolto a chi ha sempre creduto che il cinema fosse un atto politico e poetico insieme.
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Morto Goffredo Fofi, intellettuale e saggista. Aveva 88 anni
La ferita e il miracolo
Un film fatto per Bene non consola e non redime: avvelena e guarisce nello stesso tempo. È un’opera che nasce dalla rovina, un metacinema anarchico che ride della propria incompiutezza. Non sappiamo se Maresco sia mai apparso alla Madonna, come Carmelo Bene. Ma sappiamo che persino quando scompare, lascia dietro di sé un segno profondo, come una ferita che continua a sanguinare e a brillare. Al netto del celebra aforisma di Bene "In Italia basta voltarsi un attimo, e non si è più. Non si è più stati".