Dead Man’s Wire: Gus Van Sant tra cronaca, black comedy e tragedia. La recensione del film
Cinema
Alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 Gus Van Sant presenta Dead Man’s Wire, ispirato al sequestro di Indianapolis del 1977. Bill Skarsgård è Tony Kiritsis, l’uomo che legò con un “dead man’s wire” la vita di un banchiere al grilletto del suo fucile. Con Colman Domingo, Myha’la e un cameo memorabile di Al Pacino, il film riflette sulla violenza e sull’avidità del capitalismo, tra black comedy e ricostruzione storica, riportando sullo schermo l’America degli anni Settanta e i fantasmi del presente.
Gus Van Sant trasforma la cronaca in tragedia pop.Un uomo e un filo testo tra vita e morte
L’8 febbraio 1977, Tony Kiritsis entrò armato nell’ufficio della Meridian Mortgage Company di Indianapolis e prese in ostaggio Richard Hall, legandogli al collo un filo collegato al grilletto del suo fucile. Un gesto disperato e insieme teatrale, un atto di rivolta che si trasformò immediatamente in spettacolo mediatico. Gus Van Sant parte da qui per costruire Dead Man’s Wire, presentato Fuori Concorso a Venezia 82 (DIRETTA), un’opera che intreccia suspense, satira e riflessione politica.
Il cinema di Van Sant e l’eco della cronaca
Il regista, già autore di Elephant e Milk, ha dichiarato in conferenza stampa di essersi avvicinato a questa storia per la sua capacità di incarnare la rabbia di chi si sente escluso, truffato, spinto ai margini da un sistema economico spietato. L’America degli anni Settanta, attraversata da sfiducia istituzionale e violenza diffusa, dialoga con il nostro presente, dove la tensione tra individuo e potere finanziario torna a deflagrare. Non a caso, la vicenda sembra risuonare con episodi recenti che hanno trasformato “l’uomo comune” in simbolo di rivolta.
E in questa evocazione torna anche la colonna sonora del tempo: c’è spazio per l’intramontabile Raindrops Keep Falling on My Head cantata da B.J. Thomas, che piove leggera e ironica sulla tragedia, come una lacrima che si finge sorriso. È il contrappunto di un cinema che guarda al passato americano con occhio insieme affettuoso e spietato.
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Skarsgård, Montgomery e il filo invisibile
Bill Skarsgård presta corpo e sguardo febbrile a Kiritsis: paranoico, furioso, ma anche tragicamente umano. Al suo fianco, Dacre Montgomery è il banchiere prigioniero, costretto per 72 ore a vivere con il cappio al collo, la canna del fucile puntata sulla nuca. Una coppia forzata che ricorda, per intensità claustrofobica, i duelli psicologici di Sidney Lumet, come in una sorta di Quel pomeriggio di un giorno da cani aggiornato, E proprio come quel pomeriggio di un giorno da cani, Van Sant centrifuga la storia in uno stile eversivo e personale, trasformando la cronaca in spettacolo.
Al Pacino, padre crudele e spettro del passato
E poi c’è lui, Al Pacino, in un cameo che è già leggenda: il patriarca M.L. Hall che al telefono rifiuta di chiedere scusa, persino con la vita del figlio in bilico. Pacino incarna il businessman mefistofelico, un uomo con il portafoglio al posto del cuore, capace di irradiare gelo anche in una breve apparizione. La sua performance, beffarda e feroce, è un frammento che resta inciso nella memoria. Ma l’applauso in sala stampa è esploso altrove: sui titoli di coda, quando una scritta rivelava che la Meridian Mortgage Company, pochi mesi dopo gli eventi narrati nel film, era fallita. Un colpo di coda del destino, accolto dal pubblico come una giustizia tardiva.
E last but not least: nei titoli di coda appare anche il vero Tony, imprevedibile come un’ombra che continua a muoversi sul confine tra realtà e leggenda.
Colman Domingo e Myha’la: la voce del popolo e il volto dei media
Accanto a loro, Colman Domingo interpreta un DJ del Midwest, ispirato a Fred Heckman, figura realmente esistita, che diventò tramite tra Kiritsis e la comunità. Myha’la invece veste i panni di una giornalista fittizia, Linda Page, pronta a sacrificare tutto per non farsi scippare lo scoop. Se lui rappresenta la voce della ragione, lei incarna l’avidità mediatica che trasforma la tragedia in show.
Cronaca, satira e black comedy
Dead Man’s Wire è un film che scivola costantemente tra registri: dal thriller claustrofobico alla dark comedy grottesca, dalla critica politica alla farsa mediatica. Come ha detto Van Sant, Tony non è un perdente, ma un uomo che combatte contro un sistema che lo stritola. Eppure il suo gesto disperato, amplificato dalla televisione nazionale, diventa spettacolo, anticipando quella fusione tra violenza e audience che oggi è pane quotidiano dei social.
Lo stile visivo: anni Settanta come mito
La scenografia e i colori vibranti riportano al Midwest di quegli anni, con dettagli che mescolano realismo e memoria personale del regista. Ogni inquadratura sembra un tuffo in un’epoca in cui l’America, uscita da Kennedy e Watergate, non aveva più certezze ma solo ombre da decifrare
Se Dead Man’s Wire fosse un cocktail
Se il film di Gus Van Sant fosse un cocktail, avrebbe il sapore metallico di un Bloody Mary agitato nel Midwest: vodka che brucia la gola come la rabbia di Tony, pomodoro rosso come la ferita della dignità calpestata, un filo di sedano sottile e fragile come quel “dead man’s wire” che lega vita e morte. Un drink che non consola ma scuote, da bere con le mani tremanti, davanti allo schermo televisivo che trasforma la disperazione in spettacolo.
Un filo che lega passato e presente
Dead Man’s Wire non è solo la ricostruzione di un sequestro. È il ritratto di un’epoca che somiglia alla nostra, è una riflessione sul confine tra disperazione e spettacolo, è un film che interroga la nostra capacità di provare empatia per chi incarna il lato oscuro della società. Nel filo teso tra vita e morte che lega Tony e Richard, c’è la metafora di un’umanità intera, sospesa tra giustizia e follia, tra rivolta e spettacolarizzazione.