A House of Dynamite, Bigelow e la paura di una guerra nucleare. La recensione del film
Cinema
Kathryn Bigelow torna alla Mostra del Cinema di Venezia con A House of Dynamite, un thriller politico diviso in tre parti che affronta il rischio nucleare con realismo e tensione. Idris Elba interpreta il presidente degli Stati Uniti, affiancato da Rebecca Ferguson e Jared Harris. Un film che combina riflessione civile e spettacolo, aprendo un dibattito necessario sul presente e sul futuro dell’umanità sotto l’ombra dell’annientamento
Un ritorno atteso da otto anni
Otto anni dopo Detroit, Kathryn Bigelow torna al cinema con A House of Dynamite, presentato a Venezia 82. La regista premio Oscar con The Hurt Locker e autrice di Zero Dark Thirty sceglie di affrontare di nuovo l’impensabile: la logica della deterrenza nucleare, quella casa piena di esplosivi che abitiamo tutti senza rendercene conto. Non un disaster movie, ma un thriller politico che trasforma il silenzio e l’attesa in materia incandescente di cinema.
Un missile senza firma
La premessa è semplice e terrificante: un missile non rivendicato viene lanciato contro gli Stati Uniti. La corsa contro il tempo per capire chi sia il responsabile e come reagire si trasforma in un gioco al massacro psicologico. Bigelow ha spiegato: «Viviamo in una casa piena di dinamite. Volevo esplorare la follia di un mondo che rischia l’annientamento e che continua a chiamarlo difesa».
Approfondimento
Venezia 82, Idris Elba e Rebecca Ferguson sul red carpet
Tre prospettive per lo stesso evento
La forza del film sta anche nella sua struttura: tre segmenti autonomi raccontano lo stesso evento da angolazioni diverse. Tre modi di vedere il terrore. Ogni atto porta un titolo: si passa da “Colpire un proiettile con un altro proiettile”, che allude all’impossibilità tecnica e al rischio del contrattacco, fino a “Una casa piena di dinamite”, che dà il titolo all’intera opera. Bigelow spezza così la linearità narrativa per mostrare come la realtà si moltiplichi a seconda di chi la osserva: militari, politici, cittadini.
Approfondimento
Mostra del Cinema di Venezia, i film e gli ospiti di oggi in diretta
Idris Elba, un presidente fragile
Al centro della vicenda c’è Idris Elba, nei panni del Presidente degli Stati Uniti. Lontano dalla retorica muscolare di tanto cinema catastrofico, il suo leader è vulnerabile, isolato, costretto a convivere con la consapevolezza che ogni decisione può trascinare l’umanità nel baratro. «Il film è stato girato in ordine cronologico – ha raccontato Elba – ed è stato come lavorare a un documentario». Il suo presidente non salva il mondo: cerca solo di non distruggerlo.
Un cast corale
Rebecca Ferguson interpreta la comandante Olivia Walker, soldatessa disciplinata che incarna l’obbedienza cieca; Jared Harris è un Segretario della Difesa lacerato dal dilemma morale; Gabriel Basso veste i panni di un giovane viceconsigliere idealista. Tracy Letts, Anthony Ramos, Moses Ingram, Jonah Hauer-King, Greta Lee e Jason Clarke completano un mosaico di voci in conflitto. Ognuno porta un frammento di paura, potere e impotenza.
La tensione sugli schermi
Il film costruisce la sua magia proprio qui: non attraverso esplosioni o corpi dilaniati, ma mostrando uomini e donne davanti a schermi che proiettano traiettorie di missili, mappe radar, numeri. Una tensione incredibile generata soltanto da conversazioni tra potenti, da silenzi che pesano come esplosioni mancate. Nessuna vittima in scena: perché, come suggerisce il film, in caso reale non ci sarebbero superstiti. La catastrofe totale non ha testimoni.
Una sceneggiatura dal cuore giornalistico
La scrittura di Noah Oppenheim – già autore di Jackie e giornalista con esperienza in scenari di conflitto – porta nel film la durezza della realtà. Ha raccontato di aver sfruttato i suoi contatti con CIA e FBI per dare veridicità alla trama. Il risultato è un copione che rifiuta il manicheismo hollywoodiano: non ci sono eroi, solo esseri umani che devono scegliere tra la resa e il suicidio.
“La scelta è tra resa e suicidio”
È questa la frase che resta come ferita aperta. Una battuta che sembra paradossale eppure, nel contesto, diventa realtà. Non ci sono vie di mezzo: o si accetta l’umiliazione della resa, o si abbraccia la distruzione totale. Bigelow non ci consola: ci lascia nella stessa ambiguità che divora i suoi personaggi.
Gettysburg e gli elefanti
Il film è disseminato di contrappunti ironici e amari. Mentre il mondo rischia di sparire in pochi minuti, c’è chi si concentra sulla replica accurata della battaglia di Gettysburg, dove in tre giorni morirono quasi 50.000 persone: una celebrazione della morte travestita da memoria storica. E altrove, in Africa, prende forma una missione per salvare gli elefanti. Contraddizioni che raccontano bene il nostro tempo: oscilliamo tra distruzione globale e fragile speranza, tra retorica bellica e gesti di cura.
Fotografia e montaggio: il realismo come arma
La fotografia di Barry Ackroyd, maestro del realismo, amplifica l’impressione di trovarsi dentro la cronaca. Ogni inquadratura è asciutta, quasi documentaristica. Bigelow lo ha detto: «Senza di lui il film non ci sarebbe». Il montaggio di Dylan Tichenor lavora come un conto alla rovescia, serrando i tempi fino all’ultimo fotogramma.
Ambiguità finale
Il film non offre spiegazioni: non sapremo mai chi ha lanciato il missile. È la scelta voluta da Bigelow: «Era importante mantenere quell’ambiguità. Invitiamo il pubblico nella stanza, lasciando che decida». Una provocazione radicale: la regista non mostra l’impatto, lascia che l’ansia viva nello spettatore.
Se fosse un cocktail
Se A House of Dynamite fosse un cocktail, sarebbe un Nuclear Daiquiri: rum chiaro, lime, chartreuse verde. Una bevanda esplosiva che ti brucia la gola e ti lascia un retrogusto dolce-amaro. Come il film: bello, letale, impossibile da dimenticare.
Il cinema come atto politico
A House of Dynamite non è solo un film, ma un invito alla discussione. Bigelow lo ha detto chiaramente: «Dobbiamo essere più informati. È questo il messaggio che ho voluto trasmettere: avviare conversazioni sul nucleare e sulla non proliferazione delle armi». Il cinema, qui, non salva il mondo: lo mette davanti al suo specchio più crudele. E ci ricorda che abitiamo davvero in una casa piena di dinamite.