Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, Napoli tra memorie e vulcani. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 e in uscita il 18 settembre, Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi è un’opera in bianco e nero che racconta Napoli come non l’abbiamo mai vista. Tra Vesuvio e Campi Flegrei, Pompei ed Ercolano, archeologi giapponesi e statue dimenticate, vigili del fuoco e devoti, maestri di strada e marinai siriani, il regista intreccia mito e cronaca, memoria e resistenza. Un viaggio sospeso tra documentario e poesia

Una Napoli oltre lo stereotipo

“Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo”, scriveva Jean Cocteau. È la frase che meglio introduce Sotto le nuvole, il nuovo lavoro di Gianfranco Rosi, Leone d’Oro per Sacro GRA e Orso d’Oro con Fuocoammare. Presentato in concorso a Venezia 82 e distribuito da 01 Distribution, il film lascia gli scenari internazionali di Notturno e In viaggio per tornare in Italia, scegliendo Napoli come epicentro. Non la cartolina turistica né la Gomorra criminale, ma una città che vive sul crinale tra memoria e presente, mito e quotidiano, arte e sopravvivenza.

Bianco e nero come scelta poetica

“Il bianco e nero era necessario, un modo per mitigare i contrasti di Napoli”, ha raccontato Rosi in conferenza stampa. L’immagine monocroma diventa lente e filtro, capace di trasformare il caos in poesia. Costringe lo spettatore a guardare in profondità, a leggere le ombre e le luci come metafora di una città che non si lascia mai interpretare fino in fondo.

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Tre anni sotto il Vesuvio

Il film nasce da un lungo processo: tre anni di riprese, incontri, ritorni e scoperte. Rosi ha seguito gli archeologi giapponesi che da vent’anni scavano Villa Augustea, ha ascoltato le voci dei vigili del fuoco che ogni giorno rispondono alle chiamate dei cittadini spaventati dal bradisismo, ha filmato devoti, turisti, maestri di strada e marinai siriani che scaricano grano dall’Ucraina. Le storie si sono sedimentate come la cenere vulcanica: lentamente, inesorabilmente, trasformandosi in racconto.

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Archeologia e abbandono

Accanto alle voci, c’è l’archeologia: il mistero di una statuetta indiana arrivata chissà come a Napoli, i sotterranei del MANN, le ossa raccolte dagli studiosi di Tokyo, il deposito di statue dimenticate. “Tutto si distrugge e tutto si preserva”, dice l’archeologa: la frase che sintetizza il film. E allora il racconto ci porta anche dentro la struggente bellezza di una sala cinematografica abbandonata e poi in un paesaggio subacqueo: statue sommerse, mosaici, relitti minuscoli circondati dai pesci. Tutto scorre, ma tutto rimane. Napoli, sotto le nuvole, è sospesa tra rovina e rinascita.

Ed è proprio questa sospensione che ritroviamo in una delle immagini più potenti del film: due cavalli che attraversano la battigia sotto un cielo nero, mentre il mare riflette le nubi e la tempesta imminente. Una visione che racchiude l’essenza di Sotto le nuvole: vita fragile eppure tenace, sospesa tra mito e catastrofe, tra quotidiano e eternità.

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Personaggi come costellazioni

Ogni figura incontrata da Rosi è un simbolo: Titti, il maestro di strada che accoglie i ragazzi in doposcuola improvvisati; Maria, l’archeologa che si prende cura delle statue dimenticate; i vigili del fuoco che rispondono con calma a paure e follie; Aboud, giovane ufficiale siriano che scarica grano per la nostra pasta e racconta la guerra. Sono costellazioni di devozioni: gesti quotidiani che diventano riti.

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Il confine invisibile tra passato e presente

Napoli, nel film, è un’immensa macchina del tempo. La circumvesuviana attraversa paesaggi e rovine come un lungo carrello cinematografico. Nei sotterranei di Ercolano riaffiora un teatro, nel santuario della Madonna dell’Arco i devoti strisciano in preghiera. “A Napoli c’è sempre un fuoricampo diverso”, dice Rosi: quello che non si vede è più importante di ciò che appare.

Musica e suono come paesaggio

Fondamentale il lavoro di Daniel Blumberg: la sua musica non accompagna ma respira con le immagini. Sassofoni immersi nelle acque vulcaniche, idrofoni e geofoni che registrano la voce della terra, il mare che ribolle insieme alle note. Il soundscape diventa parte del paesaggio: una Napoli che si ascolta oltre che vedersi.

Se fosse un cocktail

Se Sotto le nuvole fosse un cocktail, sarebbe un Vesuvio Sour con un tocco di Taurasi. Un sour che unisce l’acidità del limone alla potenza minerale del vino campano, con un lampo di liquore al peperoncino che esplode come un’eruzione improvvisa. Il Taurasi regala profondità, cenere e fuoco, lasciando in bocca un retrogusto stratificato: un sorso che è rito, minaccia e resistenza.

E forse, per chiudere il cerchio, il film andrebbe gustato accanto a una lasagna napoletana, quella che uno degli allievi del maestro di strada cerca su internet per impararne la ricetta. Un piatto sontuoso e popolare, capace di tenere insieme tradizione e invenzione, leggerezza e gravità: proprio come il cinema di Rosi.

La minaccia e la bellezza

Al centro del film c’è l’ambiguità del paesaggio vulcanico. Il Vesuvio come archivio del passato, i Campi Flegrei come minaccia futura. Le nuvole, i fumi, le scosse, i crateri ricordano che vivere qui significa accettare la precarietà. Ma Napoli trasforma la catastrofe in bellezza, la paura in teatro, la storia in mito.

Napoli e il cinema come enigmi del tempo

Con Sotto le nuvole, Gianfranco Rosi firma un’opera sospesa tra poesia e cronaca, mito e cronaca, fragilità e resistenza. Napoli emerge come capitale dell’ambiguità, città che non si lascia mai definire ma che continua a nascondere altro, come il fuoricampo di cui parla il regista. È un cinema che scava e che abita il tempo: ci ricorda quanto siamo piccoli sotto le nuvole, e quanto la bellezza possa resistere nonostante tutto.

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