Venezia 2024: The Brutalist, un film tra amore, guerra e architettura. La recensione

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Adrien Brody interpreta un architetto ebreo emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947. Attraverso la costruzione di un edificio in stile brutalista, un emozionante viaggio nel geni e nella sregolatezza. Come ha dichiarato il regista Brady Corbert: ”Un’opera sui traumi generati dalla Seconda Guerra Mondiale e dedicata a quegli artisti che non hanno potuto realizzare la propria visione”

Come diceva Carmelo Bene: "Il talento fa quello che vuole, il genio quello può”. E László Tóth, l’architetto protagonista di The Brutalist è, senz’ombra di dubbio, un genio. Dopo Vox Lux (2018), Brady Corbet torna in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con un’opera della durata di quasi 4 ore, con in mezzo un intervallo di 15 minuti con tanto di countdown. Il cineasta americano, con un passato importante da attore (ha recitato in pellicole come Misterious Skin, Funny Games e Giovani si diventa) è un visionario costruttore di mondi. Un alchimista che attinge alla realtà miscelandola con elementi di finzione. In The Brutalist si passa con classe dall’omaggio un capolavoro della settima arte come La fonte meravigliosa (1949) e all’omonimo romanzo di Ayn Rand alle ricerche diJean-Louis Cohen, intellettuale francese , docente di Storia dell'architettura alla New York University . 

The Brutalist, la trama del film

La guerra e i suoi effetti devastanti sono una costante di questa 81.ma edizione della Mostra. E l’incipit di The Brutalist precipita lo spettatore in un incubo da cui vorresti scappare. La detenzione in un campo di concentramento nazista è una ferita non rimarginabile. E l’America, la terra delle oppurtunità, rappresenta una nuova speranza per l’architetto ebreo László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947. Ma basta l’arrivo al centro di controllo di Ellis Island, per capire che negli States la libertà per uno straniero forse è solo una statua, muta e immobile. Nel film, come in quello sciocco scherzo da adolescenti, l’America prima finge di tenderti la mano e poi allontana il braccio con un birignao. Senza contare che il protagonista della pellicola si ritrova senza la moglie Erzsébet bloccata insieme alla nipote Sophiad in Austria. All’epoca le procedure di ingresso per gli ebrei negli Stati Uniti erano lente e caute e le quote restrittive limitavano ulteriormente il numero di persone che potevano immigrare ogni anno. Anche l’incontro con il cugino Attila (il motto Parenti Serpenti vale pure oltreoceano) si rivela un fallimento. Come una scultura di Giacometti, il protagonista si perde nella Grande Mela. L’unico volto amico è quello di Gordon, afroamericano con cui condivide pure il vizio dell’oppio e dei suoi derivati. Sarà la ristrutturazione di una camera della villa padronale dell’umorale e acchittato Harrison Lee Van Buten a cambiare per sempre la vita dell’architetto: solo che bisogna sempre stare attenti a ciò che si desidera perché potrebbe avverarsi.

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"Mi hai dato il tuo fango e io ne ho fatto oro", scrive Baudelaire nell'Ébauche d'un épilogue, parimenti il protagonista tenta di trasfigurare il proprio dolore in arte. In fondo la corrente brutalista tende a utilizzare materiali grezzi in forme imponenti e massicce. Edifici pensati per offrire un senso di unità ai cittadini, opere nate per creare una comunità. L’architettura come rinascita, dopo gli orrori della guerra. Solo che Laszlo non è un semplice esecutore di un genere architettonico, immagina di utilizzare il marmo di Carrara e addirittura di servirsi del sole per dipingere su quelle ruvide superfici un segno di speranza, ma i ricchi sono spesso e volentieri capricciosi soprattutto con chi, benché famosissimo in Europa, parla un inglese da lustrascarpe e non appartiene alla classe dei bianchi di origine anglosassone e di religione e cultura protestante, ovvero i WASP.

Un grande Adrien Brody per una storia epocale

The Brutalist non teme di fare le cose in grande. E dispiace che la durata del film sia risultata un deterrente per chi va di prescia. I film, comunque, non sono cibo da fast-food. I 214 minuti, grazie a immagini potentissime ed emozionanti, valorizzate dalla pellicola 70 millimetri, volano come gli edifici concepiti da Toht, il film cerca di arrivare al cielo e possiede la magniloquenza delle storie epocali come Il Padrino o C’era una volta in America. E Adrien Brody merita una nomination all’Oscar per l’interpretazione mai caricaturale di un artista diviso tra genio e stregolatezza. Straordinari pure Felicity Jones nel ruolo della moglie e Guy Pearce in quello dell’ambiguo e malevolo business man. Insomma un lungometraggio da non perdere diviso in tre capitoli e che si conclude negli anni Ottanta, durante la prima Biennale di Architettura. E sulle note di One for you, One for me, che scandiscono i titoli di coda, a vincere è soprattutto il cinema. Quello vero che non ha paura di rischiare. 

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