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Ostiawood, il mondo del cinema e degli agenti raccontati nel romanzo di Daniele Orazi

Cinema

Paolo Nizza

Tra la Ostia degli anni Ottanta e la Mostra di Venezia, tra divi emergenti e star sull’orlo di una crisi di nervi, tra conferenze stampa e cocktail party, tra segreti e manie, tra finzione e realtà, un sulfureo, ecco un cinico ed esilarante volume che svela dall’interno il mondo della settima arte. Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore del libro, uno dei più importanti e influenti agenti cinematografici

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Tra Ostia e Hollywood ci sono quasi 10.200 chilometri di distanza. Eppure, con buona pace della geografia, i due luoghi possono risultare molti vicini. Due facce della stessa scintillante medaglia. Una sorta di Giano bifronte. Oppure una specie di Narciso che contempla il proprio riflesso. A unire il lido laziale e il quartiere losangelino è Ostiawood, libro dal titolo abbacinante, pubblicato da Solferino Editore. L’autore è Daniele Orazi, uno dei più famosi e influenti cinematografici. Grazie al suo talento, alla sua autorevolezza, sbertuccia i vizi privati e le pubbliche virtù di quell’invenzione senza futuro chiamata cinema. E Hollywood è il simbolo del cinema, la fabbrica dei sogni. Tant’è che il mondo rappresentato nel libro ricorda i versi vergati dallo sceneggiatore Don Blanding e recitati da Leo Carillo nel cortometraggio musicale Star Night at the Cocoanut Grove (1935): “Hollywood favolosa, lussuosa, lussuriosa e ridicola, gloriosa e dolorosa, generosa e volubile, paurosa e sfrontata, stralunata, festosa e terribile, ignobile, adorabile, pidocchiosa e ineffabile, rozza, pazza, geniale, magica, tragica, illogica, fatale e provinciale, avida e splendida, viziosa e candida, Hollywood portentosa, per metà buffonata, ma per metà leggenda".

Un romanzo irriverente per chi ama la serie Call my Agent

Con uno stile avvolgente e brioso, ricco di humour irriverente e di citazioni musicali e cinematografiche dotte ed efficaci, Daniele Orazi, novello Virgilio, ci porta alla scoperta di una perigliosa giungla di celluloide. E non è la Roma “tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”, di cui parla Marcello Mastroianni in La Dolce Vita. Qui si tratta della Ostia degli anni Ottanta, tra criminalità e bullismo. È in questo locus amenus che trascorre l’adolescenza inquieta Andy Schroeder, albino cinephile con una tessera fedeltà al Pronto Soccorso e una notevole collezione di traumi. Ma come scriveva  Friedrich Nietzsche “ciò che non mi uccide, mi rende più forte”. Infatti, oggi Andy è il rispettato e ammirato fondatore della W, un’agenzia che rappresenta attori e attrici famosi. Ma mentre si avvicina la Mostra del Cinema di Venezia, una sequenza di bizzarri incidenti, uno dopo l’altro, colpiscono i divi rappresentati dalla W. Sono soltanto i dardi di una oltraggiosa fortuna oppure siamo di fronte a una vendetta, tremenda vendetta nei confronti di Andy? Tra Blade Runner e Non ci resta che piangere, tra Guerre Stellari  e Asteroid City, il protagonista dovrà ricordarsi la battuta di Frank Gallagher nella serie Shameless versione USA: "Io sono quello che devo essere nell’esatto momento in cui c’è bisogno che lo sia" per risolvere il mistero. Perché per citare la frase della grande Bette Davis (non a caso usata in esergo nell’horror metacinematografico Maxxxine): "In questo settore, finché non sei conosciuto come un mostro, non sei una star".

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L'intervista a Daniele Orazi

Ostiawood è un libro che avevi nel cassetto da tempo o è stata una folgorazione?

È stata abbastanza una folgorazione. Si è presentata l’occasione attraverso una persona che mi ha presentato un editore.  La cosa è andata molto più velocemente del previsto. Prima o poi avrei voluto scrivere questo libro, ma sicuramente con molta più calma. Invece c’è stata un’accelerazione. L’editore ha creduto fortemente nel progetto e mi ha chiesto di terminarlo al più presto.

 

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Nel libro quanto c’è della tua vita e del tuo lavoro?

Non è una biografia, però ci sono moltissimi ricordi personali, soprattutto nella prima parte, quando si parla dell’infanzia a Ostia. Benché romanzata ed edulcorata, racconta eventi realmente accaduti nella mia vita, anche se poi ho invertito nomi e personaggi. Nelle pagine successive, ambientate durante la Mostra del Cinema di Venezia, ho, invece, molto giocato con la fantasia e la creatività. Mi sono proprio lasciato andare e ho cercato di immaginare come questo personaggio (che è una sorta di mio alter ego) avrebbe vissuto quelle situazioni.

 

Quindi cosa è per te la Mostra del Cinema di Venezia?

È come se ogni volta dovessi sostenere l’esame di maturità. Venezia rappresenta il momento in cui noi manager e lavoratori del settore tiriamo le somme. Come al termine dell’anno accademico riceviamo i feedback rispetto ai lavori che abbiamo portato avanti e ai contratti che abbiamo firmato. Dopo l’anteprima veneziana, riusciamo a capire se il film andrà bene, quanto investire su quell’operazione in base al tipo di risposta che ci arriva dalla sala Grande o dal pubblico, dalla stampa, dai critici, dai giornalisti.

 

Invece Ostia, cosa rappresenta per te?

Ostia è assolutamente il posto del cuore. Un luogo con il quale ho fatto pace, dopo che, per un periodo della mia vita ci avevo un po’ litigato. Anche per questo ho voluto scrivere questo libro. Ostia mi ha permesso di diventare quello che sono, nonostante un’infanzia un po’ complicata e difficile.

 

Quindi quegli incubi dell’adolescenza li hai superati?

Sì, assolutamente. Ecco, questo è un altro motivo per cui ho voluto scrivere il libro. Ho raccontato questa storia di riscatto per dare un messaggio ai ragazzi giovani: la cosa più bella è portare il libro nelle scuole, poter parlare con loro e fargli capire che le unicità, le caratterizzazioni (il nostro protagonista è un albino) possono essere dei punti di forza, di successo. Bisogna capire che sono particolarità non difetti, sono caratteristiche che ci rendono unici e proprio per questo indimenticabili. Al netto dell’aver scritto un memoir sulla mia vita, sul mio lavoro, sulla mia carriera, la cosa più soddisfacente è mandare questo messaggio sul valore dell’unicità ai ragazzi e vedere la loro risposta.

Come pensi sia percepito all’esterno, il lavoro di agente, soprattutto dai più giovani?

Durante le presentazioni mi sono reso conto di quanto ancora sia un lavoro misterioso, sconosciuto. Pensavo che non fosse più così anche grazie alla serie Call My Agent, ma i ragazzi non sanno che dietro agli artisti ci sono dei professionisti che li aiutano a lavorare. Si tratta di una professione da raccontare, da spiegare e che ha bisogno, oggi più che mai, di un riconoscimento a livello giuridico. Alla fine, siamo in pochi, forse 150 in Italia, ma siamo colonne portanti nell’industria cinematografica.

David Bowie e la sua musica sono molto presenti in Ostiawood.

Ho approfondito la mia conoscenza di Bowie con questo libro. È un artista che mi è sempre piaciuto ma non era il mio idolo. Dopo aver scritto Ostiawood mi sono, invece, innamorato del “Duca Bianco”, ho scoperto tante cose che non conoscevo su di lui e mi sono piaciuti moltissimo i suoi testi. Era veramente un poeta, aldilà di essere un personaggio eclettico, una star unica a livello estetico.

Ti faccio la stessa domanda che fa il protagonista del tuo libro a un attore emergente. C’è un film a cui cambieresti il finale?

Non ci ho mai pensato. A me piacciono abbastanza gli happy ending. Sono sufficientemente romantico. Comunque non farei un discorso specifico su un titolo ma piuttosto su un genere. Anche se il lieto fine è il benvenuto, non amo i finali facili, scontati. Molto spesso una delle critiche che faccio ai lungometraggi, non solo quelli italiani, è il fatto che potevano finire un po’ prima. Quando dici “che bello questo film ma perché l’ha fatto terminare così? Si potevano tagliare 10 minuti e lasciare quella fase di mistero dove uno può continuare a sognare “. Invece, no. C’è sempre questa strizzata d’occhio al pubblico.

Il libro e pieno di personaggi che rimandano ai vini, distillati e cocktail: da Diego Amarone a Vera Bellini.

Si tratta di un vezzo letterario perché Ostiawood è un una commedia leggere e cinica. Certo, volendo approfondire, è un modo adottato dal protagonista per esorcizzare un problema legato all’alcolismo del padre, ma di base si tratta di un divertissement. È stato molto piacevole inventare questi nomi, soprattutto Florence Cognac. È perfetto, non vedo l’ora di conoscere qualcuno che sta cercando un nome d’arte per proporglielo.

Per Andy gli attori hanno qualcosa di rotto dentro, di innocente e di infantile, quello che li fa diventare unici e ironici. Condividi questo pensiero?

Assolutamente sì, questo è proprio il mio pensiero. Dopo tanti anni mi sono accorto che c’è un comun denominatore che unisce i grandi artisti: nel profondo hanno subito un dolore, un trauma. Questo tormento interiore gli permette di andare in profondità e di rendere uniche le loro performance. Vincono le Coppe Volpi, i David di Donatello grazie al sacrificio, al lavoro. Ma dietro la bellezza e il successo, spesso si nasconde un male di vivere.

 

In un passaggio di Ostiawood, Andy dice che “il cinema è lo specchio della Vita e non sempre vince il migliore”. Lo pensi anche tu?

Sì, in parte. In certe fasi della vita ho pensato la stessa cosa. Ma sono abbastanza ottimista. Secondo me alla lunga vince il migliore. Trionfa quello più scaltro che magari riesce a ottenere risultati e successi adottando una strategia a lungo termine.

 

La copertina del libro è davvero molto bella

Mi fa piacere che ti piaccia perché questo è proprio un punto d’orgoglio per me: mi sono imputato sia sulla scelta del titolo, sia sulla cover. Ho fatto delle richieste precise: ci devono essere la palma, un bambino e un elemento terzo che, in questo caso è il coccodrillo che deve ricordare un po’ l’amico immaginario. Quando ho visto questa immagine d’archivio me ne sono innamorato. C’è anche quella saturazione, quel colore giallo che richiama il caldo di queste giornate e anche l’umidita torrida che si respira al Lido durante la Mostra del Cinema. Certo su altri temi c’è stato un compromesso con l’editore e ho alleggerito certi passaggi. Nella realtà, io sono più cinico e critico.

I diritti d’autore saranno devoluti alle associazioni non-profit  Every Child Is My Child e Pen Paper Peace.

Sì, il  mio lavoro è un altro. Questo è un hobby quindi a maggior ragione mi fa piacere fare questo gesto, perché sono due associazioni che conosco molto bene e  so che lavorano molto seriamente.

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Daniele Orazi è fondatore e capo dell’agenzia cinematografica DO Agency. Rappresenta star e upcoming italiani e internazionali per cui cura le carriere da oltre trent’anni. Manager romano, attento allo scouting, produttore e collezionista d’arte, dal 2007 è membro dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello. È ideatore del DO Rising Star Award e del contest di monologhi Young Blood, volti a mettere in luce giovani talenti. Consulente strategico di alcune realtà cinematografiche, nel 2021 è uno dei fondatori dell’associazione di categoria ASA (Agenti Spettacolo Associati). Collabora fra le altre realtà accademiche con 24Ore Business School, Luiss, Cattolica, Ied e dal 2023 è docente del primo corso universitario presso Unimarconi sul tema il lavoro del Talent Agent nel cinema italiano e internazionale.