La zona d’interesse. La recensione del film scritto e diretto da Jonathan Glazer
Cinema Credit: Courtesy of A245 nomination agli Oscar per un’opera che racconta l’Olocausto, tra banalità del male e l’orrore della soluzione finale. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, un lungometraggio necessario, pronto a ricordarci che tutti possiamo trasformarci in carnefici. Gran Prix della giuria al Festival di Cannes, la pellicola arriva al cinema a partire dal 22 febbraio
Quanto può risultare familiare il male nella soluzione finale? Moltissimo se si abita La Zona di interesse (al cinema a partite da giovedì 22 febbraio). Sicché, l’Olocausto si manifesta così vicino, eppure così lontano, Una camera con vista sull’orrore. Un gruppo di famiglia in un interno, limitrofo all’inferno. Il talentuoso regista Jonathan Grazer trasporta molto liberamente sul grande schermo il romanzo omonimo datato 2014 e scritto da Martin Amis. E fotogramma, dopo fotogramma, il cinema ci mostra quanto possa essere terrificante la morte al lavoro, soprattutto se osservata fuori campo. Già Orson Welles nel 1962 nell’adattamento cinematografico di Il processo di Franz Kafka, aveva modificato il finale del libro. Perché dopo lo sterminio di 6 milioni di ebrei, per citare le parole del grande regista e attore americano: “Mi è stato moralmente impossibile mostrare un uomo, che il pubblico poteva identificare come ebreo, che si sdraia per terra e si lascia uccidere in quel modo” Ma La zona di Interesse compie un ulteriore passo e il film si trasfigura in un avvertimento necessario: Ognuno di noi può diventare un carnefice. Non si tratta di identificarsi con i nazisti, ma di comprendere che quei mostri possiamo essere noi con le nostre famiglie, le nostre case, le nostre gite in canoa…
La zona d'interesse, la trama del film
La zona d’interesse inizia e finisce con uno schermo nero, perché si tratta di un’opera che va ascoltata oltre che visionata. Le immagini ci mostrano la quotidiana quiete di una famiglia tedesca. Un marito, una moglie e il loro cinque figli immersi in un bucolico Eden, fatto di tuffi in piscina, domeniche trascorse a pescare in riva al fiume, tazze di the degustate alle cinque del pomeriggio e giornate spese in ufficio tra carte e burocrazia. Solo che il pater familias all’anagrafe di chiama Rudolph Hoss, militare, criminale di guerra tedesco, membro delle SS e primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz. La deliziosa villetta in cui abita con i suoi cari si trova a pochi passi da un indicibile orrorr. Oltre il muro, ogni giorno vengono sterminati con il gas Zyklon B, i prigionieri ebrei. I loro corpi bruciati si trasformano in quelle che lo scrittore Elie Wiesel chiamava “ghirlande di fumo sotto un muto cielo blu”. Ma la sola preoccupazione della famiglia Hoss è continuare a vivere nella splendida cornice di quella Zona d’interesse.
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Il male dei fiori
“Questi fiori sono bellissimi. Le azalee. Abbiamo anche degli ortaggi. Qualche erba aromatica, Rosmarino. Barbabietola, Questo e finocchio. Girasole. E qui c’è il cavolo rapa. I bambini adorano il cavolo rapa. Basterebbe questa descrizione del giardino fatta dalla signora Hoss, mentre sullo sfondo incombe il filo spinato e il muro di Auschwitz per comprendere quanto sia unica e terrificante La Zona di interesse. “I bei momenti trascorsi a casa Hoss saranno sempre uno dei ricordi più belli delle nostre vacanze. A est si trova il nostro domani.. Grazie della vostra ospitalità nazionalsocialista”; recita una bambina tedesca mentre con ogni probabilità, a due passi di distanza, una sua coetanea ebrea va incontro a una fine orribile. E in questa spaventosa dicotomia si cela tutta la potenza di un film che attraverso la sottrazione amplifica la tragedia. Il gerarca con il suo completo bianco contempla con la sigaretta in bocca l’ariana e maschia gioventù e intanto pianifica nuove strategie di sterminio. SI contano i denti d’oro strappati ai prigionieri, ci si dividono pellicce, abiti e rossetti sequestrati alle vittime come premi vinti a una riffa. Soltanto la cenere dei morti che affiora nel fiume, ricorda agli aguzzini e alla loro progenie che il male abita di fronte.
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La storia siamo noi
Il gran Prix della giuria vinto al Festival del Cinema di Cannes e le 5 candidature agli Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior film internazionale, miglior suono) testimoniano l’indubbio valore dell’opera. Ma la zona d’interesse è qualcosa di più di un semplice film, Quella villa su due piani, ripresa come fosse la casa di un reality show stile Grande fratello è la cartina di tornasole di una soave indifferenza mostruosa quanto l’orrore che avviene oltre il muro dell’elegante dimora. Sentiamo lamenti, grida, pianti, latrati dei cani, cinguettii di uccellini, senza mai vedere i volti e i corpi delle vittime. Ed è un’esperienza indimenticabile, potentissima, parimenti a quelle immagini notturne girate con la telecamera termica con una ragazza ebra che nasconde della frutta per i prigionieri, mentre il gerarca legge ai propri figli le favole della buona notte. Forse tra le pagine la crudele cronaca di uno sterminio annunciato si cela ancora una parvenza di umanità. E quel sorprendente e geniale flashfoward serve a rammentarci che la Storia siamo noi, ora e in questo momento. E nessuno può permettersi di sentirsi escluso