Django, la recensione degli episodi 7 e 8
CinemaTra echi omerici e topos di genere, la serie originale Sky e CANAL+ si avvia lentamente verso la conclusione. Appuntamento questa sera, venerdì 10 marzo su Sky Cinema e in streaming su NOW
Iscriviti alla nostra newsletter per restare aggiornato sulle notizie di spettacolo
Vi è nella cultura greca un motivo ricorrente che percorre tutta la produzione letteraria dalla tragedia all’epos, e che raggiunge nei poemi omerici la sua acme, ovvero il “nostos”, il viaggio di ritorno in patria dell’eroe, tra nostalgia e sofferenze, al fine di ritrovare le proprie cose e i propri cari; e con lo scopo ultimo di ritrovare sé stesso. Insomma, il mito di Ulisse.
Anche il nostro Django, giunto ormai al settimo episodio, viene qui definito come un (anti)eroe riluttante sulla via di casa, un novello Odisseo che se a casa non ci torna è perché dopo tanti anni d’assenza forse neppure lo riconoscerebbero. Però al tempo stesso il protagonista di questa serie-tv del terzo millennio è anche ricalcato sulla falsariga di uno dei personaggi archetipici del genere western: l’Ethan Edwards di Sentieri selvaggi, il classico di John Ford che secondo certe classifiche risulterebbe essere il dodicesimo miglior film della storia americana. Anche lì, infatti, l’iconico protagonista interpretato da John Wayne era stato lontano da casa per ben tre anni dopo la fine della Guerra di Secessione.
approfondimento
Django, la recensione degli episodi 5 e 6
E non finiscono qui le analogie: esattamente come l’eroe del cult-movie di John Ford, anche il nostro Django una volta tornato a casa la trova deserta, devastata e saccheggiata. Pure qui, i Comanches, sfruttando l’assenza degli uomini impegnati altrove, riconquistano il loro bottino di guerra – come dice il vecchio Franco Nero – dandosi a stupri, omicidi e devastazioni.
Siamo dunque nell’alveo del classicismo letterario (Omero) e cinematografico (John Ford) in questo episodio settimo, sennonché, come già abbondantemente motivato nelle precedenti recensioni, esistono qui dei temi nuovi che derivano da una nuova sensibilità. Innanzitutto, rispetto a quegli ingombranti modelli, ci troviamo qui davanti a un’attitudine che potremmo definire, forzando un po’ la mano, pacifista. È ancora una volta il nume massimo di questa storia, Franco Nero (interprete - come ognun sa - del primo, leggendario, Django, e qui di uno strano prete) a recapitare il messaggio a chiare lettere all’indirizzo del nuovo Django: “Tutto questo è frutto dell’odio, non lasciare che l’odio detti le tue decisioni”.
La dicotomia guerra e pace è ribadita a più riprese nel corso del plot, ad esempio in un dialogo centrale, in tutti i sensi, intercorso tra John Ellis e Sarah. Lei sostiene che i soldi della vendita del petrolio servono per cibo, vestiti, medicine; lui che in nome della pace ha combattuto una guerra, perduto un figlio e fondato una città. New Babylon, per l’appunto, di cui vedremo la genesi in uno dei ricorrenti flashback. Tuttavia, a dispetto delle buone intenzioni, essi dovranno prepararsi a combattere, in vista dell’attacco ordito nell’ombra dal traditore Seymour e dalla Signora.
approfondimento
Django, la recensione del terzo e quarto episodio della serie tv
L’altro tema legato a una sensibilità contemporanea è il disgusto per ogni razzismo; tema peraltro già presente nel “western del risarcimento” degli anni ’70 in opere come Soldato blu o Il piccolo grande uomo, film che intesero ristabilire un po’ di verità storica, chiarendo finalmente che la conquista del west si era compiuta anche grazie al genocidio dei nativi americani. Il Django televisivo si riappropria di questa anima “politica” in alcune sequenze di denuncia riaffioranti dal passato, dalla chiara marca antirazzista. In una di queste Django – eccolo l’eroe riluttante di cui si diceva al principio – non esita a rischiare la pelle pur di salvare un piccolo nativo americano dalla furia omicida dell’orrido Gigante\Bolton, e ricondurlo in seno alla sua tribù.
Di più, indagando tra le pieghe del passato, si scopre che i fili di questo racconto affondano le radici nel lato nero dell’America: lo schiavismo. La madre di John è stata amata dal padre di Elizabeth, il quale vistosi scoperto la allontanò da casa confinandola in un’altra piantagione di cotone.
approfondimento
Il ritorno di Django, la recensione dei primi due episodi
Eh sì, perché bascula ancora tra passato e presente la narrazione di questa serie anomala, che per essere assaporata ha bisogno dei tempi lenti di un lungo racconto di frontiera. Un enorme montaggio alternato di scene presenti e remote che si riverberano di senso compiuto soltanto nella compresenza dei tempi. Come un gigantesco puzzle nel quale le varie tessere (principalmente Sarah e John, Django e La Signora; ma non solo) si caricano di senso nel corso del tempo, legate assieme da un montaggio alternato che continua a svelare dettagli preziosi creando contemporaneamente fertili riverberi. Si scopre così che fu il padre di Elizabeth a lasciare a quel “figlio bastardo”, John Ellis, un appezzamento di terra nera e arida che un giorno diverrà New Babylon.
E si scopre anche un nuovo straordinario personaggio, legato a Django da un altro filo sperduto nel passato: il Gigante, leader di una banda che prende il nome dal suo vero cognome, la Banda Bolton; e che è ricalcata sulla falsariga delle tante bande di cui è lastricata la storia del western, a partire da quella celeberrima di Jesse James, di solito composte come questa da reduci di guerra, rapinatori di banche, fuorilegge e bounty killer. Bande che il grande cinema western ha raccontato spesso: i primi titoli che vengono in mente sono il film di Philip Kaufman La banda di Jesse James (1972) e I cavalieri dalle lunghe ombre di Walter Hill (1980), passato alla storia perché i fratelli della finzione cinematografica erano interpretati da veri fratelli attori (i Carradine, i Keach, i Quaid, etc.).
Questo Bolton però è un villain particolarmente abietto, un “filthy bastard” come direbbero lì nel vecchio west: sterminatore di pellerossa, stupratore di donne e assassino seriale privo di morale, incapace di fermarsi persino difronte a un bambino.
La banda di trucidi bounty killer capitanata dal becero Gigante, ci permette di fare la conoscenza di un altro degli attori italiani presenti nel cast. Si tratta del milanese Thomas Trabacchi, che qui interpreta Rosario, un siciliano giunto in America durante le prime migrazioni ottocentesche. Diplomato alla Bottega Teatrale di Vittorio Gassmann, Trabacchi ha frequentato i set di parecchia serialità, trovando al cinema il ruolo più convincente accanto a Lucia Mascino in Amori che non sanno stare al mondo, diretto proprio dalla regista di Django, Francesca Comencini, che lo aveva ricavato dal suo romanzo omonimo.
L’ottavo episodio è il primo diretto dal romano Enrico Maria Artale, uno dei registi della prima e seconda stagione della serie targata Sky, Romulus, messosi in mostra dieci anni fa alla Mostra di Venezia con l’interessante Il terzo tempo, film di periferie e disagi sociali con Edoardo Pesce e Lorenzo Richelmy.
Questi episodi ospitano un altro indispensabile topos del genere western come la sparatoria a cavallo tra indiani e cowboy, girata grazie a un classico campo-controcampo come insegna la grammatica cinematografica da John Ford in avanti. Con tanto di stuntmen acrobatici, pellerossa ululanti e cavalli azzoppati. Scene che oggi però, grazie a una conquistata sensibilità nei confronti degli animali, sono realizzate in condizioni tali da garantirne l’incolumità.