Il ritorno di Django, la recensione dei primi due episodi
Serie TVAdattando il soggetto di uno dei più noti “spaghetti-western” di sempre, di recente omaggiato anche da Quentin Tarantino, Francesca Comencini dà vita a una serie originale targata Sky e CANAL+. Una coproduzione internazionale cui partecipano anche Cattleya e Atlantique Productions, diretta anche da David Evans ed Enrico Maria Artale. Nel cast: Matthias Schoenaerts, Noomi Rapace, Vinicio Marchioni e Manuel Agnelli
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In origine fu il film di Sergio Corbucci, uno dei titoli di culto del cosiddetto “spaghetti-western”, che rivisitava l’epica dell’origine della Nazione americana aggiungendo al modello di John Ford e John Wayne un surplus di spietatezza e amoralità che servì a dar nuova linfa a un genere cinematografico altrimenti in declino.
In particolare, il Django di Corbucci, rispetto ai film di Sergio Leone, si connotò per un uso estremo della violenza, con picchi di sadismo efferato. Il caso più esemplare è costituito dalla scena in cui viene tagliato un orecchio a uno dei protagonisti: se ne ricorderà Quentin Tarantino che la replicò fedelmente nel suo lungometraggio d’esordio, Le iene. Ma non basta, Corbucci e i suoi collaboratori (tra cui spiccano l’aiuto regista Ruggero Deodato autore dei cosiddetti “cannibal-movies”; lo sceneggiatore Fernando Di Leo, poi autore dei “poliziotteschi” più colti; e il direttore della fotografia, Enzo Barboni, in seguito regista degli “sganassoni-western” di Bud Spencer e Terence Hill, col nome d’arte E.B. Clucher) riuscirono a colpire nel segno dell’immaginario collettivo internazionale, determinando una germinazione di remake e sequel apocrifi soprattutto tedeschi, anime e manga giapponesi, fumetti horror, parodie di Franco e Ciccio e citazioni nella saga di Star Wars. Per tacere della rivisitazione ancora di Tarantino, che omaggia quel cult sin dal titolo: Django Unchained.
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Da tali echi e rifrazioni prende le mosse la serie originale che sta per approdare sui nostri canali, dopo esser passata a ottobre alla Festa del cinema di Roma. Una produzione internazionale in larga scala che vede coinvolti contemporaneamente Sky Italia e CANAL+, Cattleya e Atlantique Productions (ci sono anche Sky Studios e STUDIOCANAL, a voler esser pignoli). La serie sarà visibile on air ma anche in streaming su NOW in Italia, Regno Unito, Irlanda, Germania e Austria e su CANAL+ in Francia, Polonia, Svizzera e Africa (e attraverso M7 nei Paesi Bassi, in Belgio, in Lussemburgo, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca).
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Si insiste su questi dettagli apparentemente irrilevanti, per chiarire sin da subito che il vero atout di Django è la sua anima cosmopolita, che si riflette anche sul cast tecnico e artistico. La regista e direttrice artistica del progetto è Francesca Comencini, terzogenita del regista Luigi, che si è distinta di recente nella direzione di alcuni episodi della serie Gomorra. Qui ha messo in scena i sentimenti famigliari conferendogli un aspetto al contempo epico e cupo, lo stesso che permea la serie di cui ci stiamo occupando. In più la regista romana ha fatto affidamento a certe sue reminiscenze di genere che rimandano a uno dei più negletti capolavori di Rober Altman come I compari, che in originale si intitola McCabe & Mrs. Miller. Al suo fianco, in cabina di regia, troviamo l’inglese David Evans che proviene dalla serialità britannica di Downton Abbey; ed Enrico Maria Artale, regista di alcuni episodi della serie “peplum”, Romulus.
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Non manca però anche un significativo drappello di attori italiani, a cominciare da Franco Nero, che appare qui in un immancabile cameo. C’è poi Vinicio Marchioni, nel ruolo di un capitano dell’esercito confederato, che incontra Django nei flashback durante la guerra; Thomas Trabacchi in quello di un immigrato siciliano che appartiene ai primi flussi migratori verso le Americhe; infine, Manuel Agnelli che fa un bizzarro dandy in cerca di fortuna. Sembra però che sul set fosse necessario padroneggiare anche un po’ di rumeno, è infatti tra il Danubio e Bucarest che sono state costruite le scenografie di Paki Meduri, altra eccellenza del nostro cinema che ha dichiarato di essersi ispirato a Le città invisibili di Italo Calvino per edificare la città di New Babylon, fulcro di queste location. Si tratta di una città fondata da un ex schiavo afroamericano (John Ellis) e da una giovane donna bianca (Sarah Wright), come una comunità utopica ricalcata sulla falsariga della La città del sole di Tommaso campanella, in cui trionfa l’inclusione e dove non si fanno discriminazione di genere, razza e credo. Trova infatti qui diritto di cittadinanza ogni sorta di diversità: neri, donne mai subalterne e persino un transgender. Ma anche “ladri, puttane e assassini” come tuona a un certo punto uno dei figli del boss. Questo accade programmaticamente, secondo la testimonianza della stessa Comencini che spiega come la serie sia fondata su di un autentico paradosso: raccontare la crisi della virilità (la fine del patriarcato) utilizzando i canoni del genere cinematografico che più di ogni altro ha contribuito a edificarla. Ecco perché, pur tenendo fede al modello di riferimento, per questo reboot del terzo millennio Comencini & Co. ripartono dal soggetto di Corbucci, introducendovi però significativi elementi tematici legati alla contemporaneità.
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Julian Wright, detto Django, è anche qui un antieroe cinico e violento che proviene dal passato remoto alla disperata ricerca di un riscatto per una colpa imperdonabile. Un uomo in fuga da sé stesso che non crede più a niente, perso in una fuga nichilista che può essere risarcita soltanto grazie al ritrovamento di una figlia perduta. Al suo fianco compaiono però qui una serie di coprotagonisti altrettanto forti, che, pur agendo sui consueti scenari western, svelano un’identità assolutamente contemporanea: sono percorsi da profonde contraddizioni e da vulnerabilità chiaroscurali. Il motivo lo spiega benissimo uno degli autori dello show, Maddalena Ravagli (gli altri sono Leonardo Fasoli e Max Hurwitz, tutti provvisti di acclarate benemerenze nel campo della serialità). Parafrasando un celebre aforisma di Mao Tse-Tung, “la rivoluzione non è un pranzo di gala” (che apparve anche in esergo di Giù la testa di Sergio Leone, a proposito di spaghetti-western), Ravagli sostiene che a questo film si attaglia benissimo la frase “l’inclusione non è un pranzo di gala”.
Ad esempio, uno degli antagonisti del film, John Ellis, è sì il leader di una città dell’accoglienza e della tolleranza, però secondo alcuni egli è anche un despota sanguinario; insomma, è tutto il contrario di santino agiografico, è un uomo intollerante e violento. È come se gli autori ci stessero dicendo che all’interno di ogni narrazione utopistica vivono delle intrinseche contraddizioni, se è vero che tutte le rivoluzioni sono state seguite dal termidoro, dalla restaurazione, dal terrore, e dai culti delle personalità.
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Anche Elizabeth non è meno terribile: intollerante e violenta come la sua nemesi, si presenta in scena uccidendo brutalmente una prostituta e compiendo subito dopo una mattanza dentro una bisca\bordello sulle note de “La foule” di Edit Piaf. È ciò che ella definisce: “diffondere la parola di Dio sulla terra”. Si tratta di una sorta di predicatrice bigotta e invasata che si batte contro il vizio, il peccato e la perdizione e spadroneggia su Elmdale, città della redenzione e sorta di antitesi di New Babylon. Anche qui sembrano riecheggiare certe reminiscenze storiche. Non fu infatti in nome di Dio che i conquistadores spagnoli colonizzarono le Americhe esportando la fede cristiana con le buone o con le cattive?
È insomma qui riassunta tutta la violenza del mondo, in maniera neanche troppo metaforica. La stessa conquista del West, come ci insegna la storia del cinema e la Storia tout court, è lastricata di cadaveri; e, ad onta della retorica un po’ mistificatrice sui cowboy e gli indiani, la nazione che ne è derivata è stata edificata su un due genocidi: la tratta dei neri e il massacro dei nativi americani.
In L’uomo che uccise Liberty Valance, uno dei massimi capolavori del western di tutti i tempi, John Ford ci ha spiegato che nel West, “quando la leggenda supera la realtà, scriviamo la leggenda”; il nuovo Django, invece, nella sua cupezza apocalittica e tutta contemporanea, ci racconta la realtà, senza indorare la pillola e senza fare sconti a nessuno.