La Macchinazione, l’ultima verità sul caso Pasolini. La recensione del film

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di Alessio Accardo

Il 2 novembre 1975 veniva assassinato a Ostia il regista, scrittore e poeta Pier Paolo Pasolini. Sky Cinema Due gli rende omaggio alle 21.15 con la prima visione del film diretto da David Grieco, che racconta gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini, interpretato da Massimo Ranieri

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“Pasolini potrebbe essere per me un padre, un fratello, un maestro di vita, una fonte d'ispirazione, un mastro artigiano, un collega, un interlocutore umano e politico privilegiato. È un rapporto difficilmente etichettabile, ma decisivo a farmi diventare, nelle qualità come nei difetti, la persona che sono. In sostanza, Pier Paolo Pasolini è stato, anche inconsapevolmente, la mia guida etica, una guida rigorosa e anticonformista allo stesso tempo.” Così parlò David Grieco, che per Pasolini è stato attore, assistente alla regia e par l’appunto amico fraterno, fino alla data della sua tragica scomparsa.

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Nel 2014 - dopo aver rifiutato di collaborare alla sceneggiatura del Pasolini di Abel Ferrara, perché resosi conto che il regista italoamericano era intenzionato a sposare la tesi del delitto a sfondo sessuale – Grieco decide di girare il “suo” Pasolini, che intitola sintomaticamente La macchinazione, che in quegli stessi anni diverrà anche un libro, edito da Rizzoli. Lo scopo? Fornire la propria versione dei fatti, in contrasto con la verità processuale fin qui accertata: il poeta friulano non sarebbe stato ucciso dal “ragazzo di vita” Pino Pelosi, in seguito a un alterco pervia di una mancata prestazione sessuale, ma sarebbe invece stato vittima, per l’appunto, di una macchinazione ordita da una fitta trama di poteri occulti non più disposti a tollerare che quella voce scomoda si continuasse a esprimere liberamente e disposti perciò a giovarsi della bassa manovalanza di delinquenti comuni, criminalità organizzata (la famigerata Banda della Magliana), piduisti e neofascisti.

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Ma andiamo per ordine. Il film di Grieco si apre con questa citazione in esergo: “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia” Lo scrisse, insieme a tante altre riflessioni eretiche, il protagonista del film, che a causa di questo assunto perderà la vita e la possibilità di continuare a sferzare il malaffare dell’Italia dei suoi tempi, attraversata da trame occulte, scandali politici e ordinaria violenza quotidiana. La marca politica del film viene immediatamente disvelata, già dalla prima scena: nell’abitacolo dell’automobile guidata da PPP si ode in sottofondo uno speaker radiofonico che annuncia il clamoroso risultato elettorale del Pci, votato quell’anno dal 32,5% dell’elettorato, un italiano su tre. Il miglior risultato di sempre.

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Ma l’intellettuale nato a Bologna, da sempre vicino al Partito comunista (nonostante l’espulsione per indegnità morale), non se ne rallegra più di tanto: sul suo volto, già segnato dagli anni e dalle tante amarezze pubbliche e private, è già calata una cupa ombra premonitrice che sembra già preconizzare la sua tragica fine. Siamo nell’estate del 1975, quando il regista sta terminando il montaggio del suo ultimo film maledetto: Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ennesimo gesto provocatorio di una produzione artistica tutta contro corrente, che uscirà postumo. Ma non basta: in quegli stesso giorni, PPP si stava dedicando alla stesura di uno strano libro, Petrolio: metà romanzo scandaloso, metà saggio di denuncia.

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Come si racconta nel film, egli desiderava rilanciare in quel volume le ardite tesi rinvenute nel libro di un certo Giorgio Steimetz (nel film interpretato da Roberto Citran), che svelava il lato oscuro di un capitano d’industria come Eugenio Cefis di cui si adombra il coinvolgimento nell’omicidio Mattei e la diretta responsabilità nella nascita della Loggia massonica Propaganda due, comunemente detta P2. Ecco la tesi del film: Pasolini non fu ucciso dal raptus violento di un amante riottoso, ma fu assassinato dal sistema, da quel “palazzo” che il poeta aveva criticato nei suoi “scritti corsari” e provocato con la sua stessa esistenza scandalosa.

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Nel ruolo del protagonista, un somigliantissimo Massimo Ranieri, che lo ricorda così: “Io ho avuto il privilegio e l’onore di conoscerlo. Come direbbe Robin Williams è stato un attimo fuggente. Eravamo in un campetto di calcio, io avevo finito una partita e lui entrava, e mentre allacciavamo lui gli scarpini e io le scarpe per uscire si gira e mi fa "Ma allora è vero che ci somigliamo, me lo avevano detto". Mai più rivisto, ahimè: mi sarebbe piaciuto molto bere un caffè insieme a lui e che mi trasmettesse almeno un po’ di questo suo immenso valore umano e poetico.”

Accanto al cantante e attore napoletano, troviamo Milena Vukotic, nel ruolo della mamma di Pasolini, l’amatissima Susanna Colussi; e il compianto Libero De Rienzo - che ci ha lasciato di recente prematuramente - nel ruolo di un personaggio misterioso, decisivo per le sorti del film. Si tratta di Antonio Pinna, che l’attore romano, ai nostri microfoni, aveva presentato così: “Nel teorema del plot, Antonio Pinna è un po’ la pietra dello scandalo, un nome che è venuto fuori un paio di anni fa da alcune indagini dalle quali è emerso che al volante della macchina che ha ucciso Pasolini ci fosse proprio lui. Si è scoperto che su Pinna c’è un dossier secretato a fronte del fatto che la sua fedina penale era immacolata tranne per un fermo per guida senza patente: era il driver della mala ma si era dimenticato di prendere la patente! La domanda che sorge spontanea è: "perché uno che ha solo un fermo per guida senza patente ha un fascicolo secretato grande così?" E poi c’è un'altra serie di fatti venuti alla luce recentemente tra cui la testimonianza di due carrozzieri che avevano avuto l’incarico di mettere a posto una seconda macchina, un’altra Alfa GT (non quella di Pasolini usata da Pelosi), appartenuta proprio ad Antonio Pinna. Quella guidata da Antonio, secondo queste ricostruzioni, è stata portata da un primo carrozziere che ha trovato sangue, cuoio capelluto, ecc.; quindi da un secondo carrozziere, con più pelo sullo stomaco o un mutuo più alto, che l’ha messa definitivamente a posto. Mentre la macchina di Pasolini, su cui è stato fermato Pelosi, era intonsa... Queste sono cose che io ho appreso dopo aver parlato con David Grieco che, oltre ad avere motivi professionali di adesione a questa vicenda, ne ha anche di umani perché è stato un amico di Pierpaolo, molto presente sin dalle prime ore dopo che successe il fatto”

Come si vede, leggendo le dichiarazioni del povero De Rienzo, siamo dalle parti del cinema civile d’inchiesta o di denuncia; filone cinematografico in auge nel corso degli anni ’70 grazie al lavoro di cineasti del calibro di Francesco Rosi, Elio Petri, Damiano Damiani, etc.; e che David Grieco parrebbe qui voler provare a riproporre con esiti tutt’altro che disprezzabili. Non è tutto: oltre alla descrizione del luttuoso fattaccio di cronaca, La macchinazione è anche un’ulteriore occasione per indagare una delle figure più affascinanti del ‘900 italiano, che anche qui ribadisce la sua irriducibile ostilità nei confronti del consumismo capitalista che avrebbe, a suo dire, contribuito a determinare il genocidio culturale delle classi subalterne, il sottoproletariato urbano da sempre al centro delle sue creazioni artistiche e della propria umana empatia. Un universo antropologico col quale egli si era finito per fondere senza più filtri fino a trovarne la morte. Lo spiega benissimo, ancora una volta, Libero De Rienzo, totalmente calato nello spirito del film, fino a sposarne fino in fondo le tesi d’inchiesta e quelle stilistiche: “Se permettete, mi prendo un microscopico spazio di giudizio rispetto al personaggio che interpreto e agli altri ‘ragazzi di vita’ che compaiono nel film. Nonostante Antonio fosse alla guida della macchina che lo ha ucciso, era una vittima al pari di tutti gli altri. Lo diceva pure Pasolini: questa è gente che appartiene a un sottoproletariato che in quegli anni comincia a perdere la sua forza, la propria innocenza; la propria dignità di popolo, per aspirare a diventare simile a quella borghesia ignorante e violenta con la quale finiranno per coincidere. La macchinazione che raccontiamo nel film e un imbuto che conduce in un buco sempre più stretto da cui esce solo sangue, merda e petrolio.”

Il film si apre e chiude sulle note della suite sinfonica di Atom Heart Mother, immortale long-playing composto dai Pink Floyd nel 1970, quando era divenuta una delle band più note e prestigiose del cosiddetto progressive-rock.

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