il commediante on demand presenta "In nome del popolo italiano"

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Alessio Accardo

Alessio Accardo

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Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi in un capolavoro profetico firmato DIno Risi. 

Ritorna IL COMMEDIANTE ON DEMAND, la nuova rubrica che si incarica di scovare per voi, nello sconfinato archivio di Sky, le chicche più preziose del genere cinematografico più longevo e identificativo del nostro cinema: la commedia all’italiana. Quella propriamente detta e quella più spuria, quella di ieri e quella dell’altro ieri o persino di oggi, quella contaminata con altri filoni e quella a denominazione d’origine controllata; navigando senza troppi snobismi tra “alto” e “basso”. Oggi è la volta del classico di Dino Risi In nome del popolo italiano.

Anni ’70. La commedia politica (fin dove si può)

La commedia all’italiana è stata, tra le tante cose, anche l’acida radiografia della società del boom economico, la sua cattiva coscienza.

E quella più matura, quella degli anni ’70, ne è stata la satira pungente; la critica feroce, la contestazione politica di chi intendeva “castigare i costumi ridendo”, senza però mai eccedere più del lecito. Senza mai sconfinare nel film di denuncia che sarà piuttosto appannaggio del cosiddetto “cinema civile” che negli stessi anni praticavano con discreto riscontro di pubblico i vari Elio Petri e Franco Rosi; oppure, a un livello ancora più intransigente e d’autore, dei fratelli Taviani, di Marco Bellocchio e di Bernardo Bertolucci.

La commedia all’italiana – è bene ricordarselo sempre - è un cinema medio e popolare, per linguaggio e per target, e oltre certi limiti non ha mai potuto o voluto spingersi. Con delle eccezioni, In nome del popolo italiano di Dino Risi è una di queste.

Nella prima sequenza il pretore Mariano Bonifazi, interpretato da Ugo Tognazzi, dispone la demolizione di un palazzo costruito abusivamente, uno dei tanti ecomostri che già da qualche anno avevano iniziato a deturpare i mari e i monti del nostro Belpaese. I frutti più avvelenati dell’impetuoso boom economico degli anni ‘60, il lato oscuro delle spiagge gaudenti e delle canzonette in voga di dieci anni prima.

Più tardi il pretore, che una voce dialettale (più ciociara che romanesca) ci informa essere stato promosso giudice istruttore, sta trascorrendo quella che ha l’aria di essere una giornata di risposo domenicale, assecondando una delle sue passioni, la pesca. Peccato che in queste acque avvelenate di fine boom i pesci che vengono a galla siano tutti già morti, uccisi dall’inquinamento degli sversamenti criminali delle fabbriche. E non va meglio al gabbiano, che uno di quei pesci ghermisce: in una metafora molto didattica e quasi didascalica il pennuto muore, avvelenato anche lui da un pianeta già assassinato dalle cattive azioni degli esseri umani.

Un’impietosa panoramica di Risi ci mostra che la schiuma della risacca non è più quella delle onde, ma quella artificiale dei liquami tossici che provengono dalla “Santenocito Plast Spa” una società che si trova proprio lì a due passi, e da dove esce, a bordo di una lussuosa berlina, l’ingegnere Santenocito in persona, interpretato da Vittorio Gassman.

La spiaggia, che è stata un topos immancabile delle commedie di inizio boom, tipo L’ombrellone dello stesso Risi (ma anche Il sorpasso contiene delle sequenze immortali ambientate in riva al mare), in queste “commedie nere” degli anni ’70 è ormai ridotta così. E invece del sole e delle belle donne che un tempo Dino Risi amava salacemente e ancora parzialmente svestire, c’è un cielo livido e grigio da cui nel finale si scatenerà un metaforico temporale.

E non si tratta dell’unica figura allegorica del film. In una sequenza successiva di quello che si rivelerà presto essere un vero e proprio legal-drama\mistery (o giallo come si preferisce dire da noi), Il Palazzo di Giustizia, il famoso “palazzaccio” di Roma, cade letteralmente a pezzi: una metafora che ancora una volta non ha bisogno di ulteriori spiegazioni

Insieme alla spiaggia, anche la festa era uno dei scenari tipici della commedia classica, uno dei posti dove la società consumistica del miracolo economico dava sfoggio delle sue presunte virtù, finendo piuttosto più spesso per scoprire i suoi autentici vizi. Anche qui ce n’è una dal sapore quasi felliniano, talmente importate da fare scuola. Verrà citata quasi alla lettera nel 2016 dal compianto Carlo Vanzina, nel suo penultimo film, Non si ruba in casa dei ladri.

È una delle classiche feste in cui all’epoca l’alta borghesia si metteva in maschera (qui sono tutti letteralmente mascherati da antichi romani, a partire dall’ineffabile Ing. Santenocito), provando a celare le proprie magagne che al postutto finiscono quasi sempre per venire a galla. Peccato che ormai, in queste commedie degli “anni di piombo” (ad un certo punto viene persino evocato il golpe, che in quegli stessi anni in Italia si stava effettivamente tramando nell’ombra), va a finire che la polizia venga ad arrestare il padrone di casa, portandoselo via con tanto di elmo!

Dino Risi, tra cinismo e civismo

Se Mario Monicelli è stato il primo artefice della commedia all’italiana con I soliti ignoti, il milanese Dino Risi, col trittico Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) è certamente colui il quale ne ha determinato in maniera più precisa e perentoria la sintassi. I suoi film di questo periodo sono stati delle satire più o meno bonarie, a metà strada tra la critica di costume e il brillante reportage di cronaca, sempre capaci di cogliere chirurgicamente lo spirito dei tempi (ecco perché sono immortali). Commedie sempre in bilico tra cinismo e civismo, insomma, come indecise se fustigare i malvezzi della società dei consumi o cantarne le gioie effimere prima che sia troppo tardi.

Figlio di medici, Risi si laureò effettivamente in medicina e, se fosse stato per la madre, sarebbe diventato psichiatra. Per fortuna nostra scelse il cinema, ma non si dimenticò mai dei suoi studi: nei suoi lavori si rinviene quasi sempre l’impietosa meticolosità dell’entomologo che documenta la degradata antropologia della sua contemporaneità con impietosa freddezza, divertendosi a scovare i dettagli più sconci e persino ripugnanti, che però utilizzerà per lo più per suscitare il riso.

A differenza di Monicelli, Risi (che era soprattutto un anarchico gaudente, seppur non privo di uno spirito critico molto affilato) è stato meno interessato alla dimensione politica delle sue storie. In questo film, però - soprattutto grazie al copione scritto assieme alla coppia di sceneggiatori più importanti del “genere”, Age e Scarpelli - realizza senz’altro la sua opera più engagé, E secondo alcuni (come il massimo esperto in materia, Enrico Giacovelli), il suo ultimo capolavoro.

Non si pensi tuttavia di trovarsi di fronte a un “film-volantino” o a qualche tipo di pamphlet ideologico. La cifra degli autori della commedia all’italiana, infatti, al netto delle loro piccole o grandi differenze, è stata umoristica, nel senso pirandelliano del termine: anche quando parlano di cose serissime o, come in questo caso gravissime, non smettono mai di riderci sopra.

Perché il loro resta comunque un cinema popolare pur senza essere populista, commerciale anche se non corrivo.

Gassman e Tognazzi. I nuovi mostri: il palazzinaro e il forcaiolo

Protagonisti assoluti di In nome del popolo italiano sono Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, ovvero due dei cosiddetti “colonnelli” della commedia all’italiana, assieme ad Alberto Sordi e Nino Manfredi (e in qualche misura anche Marcello Mastroianni).

I due costituirono una coppia rodatissima, nata al principio degli anni ’60 con La marcia su Roma (1962) dello stesso Risi (rivisitazione farsesca della nascita del Fascismo) e confermata in uno dei caposaldi del “genere” I mostri, girato dal medesimo regista l’anno seguente. Diversi per carattere e formazione (Gassman proveniva dal teatro di prosa più classico e Tognazzi dalla gavetta del teatro di varietà), i nostri divennero cari amici, tanto che la loro coppia artistica viene ancora oggi replicata dai due loro figli più celebri, Alessandro e Gianmarco.

Gassman è l’ingegner Santenocito un costruttore edile specializzato in speculazioni edilizie, uno dei tenti “palazzinari” che hanno perpetrato quello che è passato alla storia come il “sacco di Roma”. E il ritratto che gli autori ne drappeggiano non potrebbe essere più crudelmente preciso: ha due procedimenti penali a suo carico uno dei quali per traffico d’armi, ha fatto il militare nei parà, frequenta il Circolo canottieri Aniene come tutta la buona borghesia romana, e tanto per non farsi mancare niente è pure antidivorzista.

La biografia del giudice Bonifazi è invece riassunta da un fascio di prime pagine di giornali che campeggiano disordinatamente sul suo letto: “L’Unita”, “Il Manifesto”, la rivista “Pescare” e anche “Il Tempo” però. Un tipo serio e quasi serioso che ascolta musica sinfonica. Un magistrato integerrimo dai saldi principi morali e dalla ferrea forza di volontà, che sembrerebbe l’evoluzione di un analogo personaggio interpretato dall’attore cremonese un paio di anni prima, Il commissario Pepe di Ettore Scola.

I soliti noti. Le maschere di un genere: poeti, tecnici e caratteristi

Accanto ai due “mattatori”, nei credits del film si scoprono facce e storie molto eloquenti.

Lavinia Santenocito, la moglie dell’ingegnere, è interpretata da Yvonne Furneaux, un’attrice francese, che dopo aver lavorato accanto al grande Errol Flynn, divenne famosa anche in Italia per l'interpretazione di Emma, la fidanzata di Marcello Mastroianni ne La dolce vita (1960).

Nel ruolo di Giugi Santenocito, la figlia, c’è Simonetta Stefanelli, conosciuta in tutto il mondo per il ruolo di Apollonia Vitelli in Corleone, la moglie siciliana di Michael (Al Pacino) ne Il padrino (1972) di Francis Ford Coppola. E per essere stata in seguito una delle vere mogli di Michele Placido, nonché la mamma di Violante e Brenno.

Tra i caratteristi non mancano i soliti noti della commedia all’italiana: il medico legale ha il volto grifagno di Pietro Tordi, visto in decine di commedie alte e basse; e l’archivista del Palazzo di Giustizia è l’immenso Checco Durante, attore romano nato nella compagnia teatrale di Ettore Petrolini e poeta dialettale, che qui snocciola una serie di sarcastici sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, che fanno da controcanto ironico alla vicenda narrata.

Non manca nemmeno l’immancabile Franca Scagnetti, caratterista matronale buona per tutti gli usi, e vista infatti persino in Suspiria di Dario Argento. Interpreta una portiera testimone del presunto omicidio al centro della vicenda che, al cospetto del giudice, si esprime in un romanesco che vorrebbe essere forbito ed è invece solo pieno di spericolati ipercorrettismi, come l’inesistente “sospettetti”. (!)

Le musiche, dal chiaro sapore “procedural drama”, sono composte da uno dei più grandi compositore di colonne sonore, il M° Carlo Rustichelli, ed eseguite da un gruppo di progressive-rock dei tempi, che aveva tra i suoi componenti il futuro batterista dei Pooh, Stefano D’Orazio.

La fotografia sporca e di grana grossa (quasi a dare forma plastica e compiuta alla sporcizia morale che si sta rappresentando) è curata da Sandro D’Eva, che ha collaborato a lungo con Risi, Scola e Parenti; conferendo a queste opere la sua cifra sgranata, tra il parossismo iperrealista e l’urgenza quasi sciatta del reportage televisivo

Un film premonitore. Ovvero, tangentopoli vent’anni prima di tangentopoli

La commedia di Risi, si diceva, ha saputo cogliere sempre, almeno nelle sue prove più felici, lo zeitgeist della sua epoca, captarne il “qui e ora”. Pervia della precisione degli strumenti di indagine sociale e antropologica e per l’acutezza con la quale lui e i suoi sceneggiatori sono stati capaci di adoperarli.

Qui accade però qualcosa di più, la registrazione del quotidiano è talmente fedele da riuscire a coglierne persino certi echi futuri.

Innanzo tutto si immagina una partita di calcio, Italia-Inghilterra, che sarebbe stata giocata soltanto due anni dopo. Più di preciso, le due nazionali si affrontarono, dopo una pausa di ben 12 anni, il 14 giugno del 1973 al comunale di Torino dove i nostri trionfarono per 2-0. Si tratta però solo dell’antipasto di quel che avvenne cinque mesi dopo, il 14 novembre del 1973, quando grazie a un leggendario gol di Fabio Capello gli azzurri firmano il primo storico trionfo a Wembley.

Ma quel che più colpisce di questa previsione sportiva è l’analisi politica che ne scaturisce: viene qui detto senza troppi giri di parole che oggi, in questi anni secolarizzati, non è più la religione ad essere l’oppio dei popoli ma il gioco del calcio.

In un finale quasi granguignolesco, la vittoria degli azzurri sui giocatori britannici dà la stura a una specie di bolgia dantesca in cui il giudice Bonifazi “vede” l’ingegner Santenocito trasformarsi in una galleria di “mostri”, che non sono meno spaventosi di quelli inscenati nell’omonimo, succitato, film di Risi, in cui l’attore genovese dava sfoggio del suo formidabile fregolismo.

Qui, davanti agli occhi allucinati del giudice egli incarna in rapida successione: un prete in tunica che si esprime solo in “latinorum”, un torvo nostalgico del fascismo che si abbandona a un eloquente “Viva l’Italia, viva il Duce!”, un parà della Folgore che rivendica la vittoria militare di Giarabub e persino un’improbabile prostituta ovviamente laida e grassa. E poi, infine, l’evoluzione ancora più mostruosa del sottoproletario “mostro” che in un celebre episodio del film capostipite, “Che vitaccia!”, nonostante vivesse con una nidiata di figli in una borgata cadente, trovava il tempo per recarsi allo stadio e abbandonarsi ai più belluini gridi d’esultanza da tifoso sfegatato (“Forza Lupiii!!! Oddio me pija ‘no sturbo”) e che qui, più banalmente e più ferocemente, ribalta e dà fuoco a una macchina solo perché ha una targa inglese.

Ancora più impressionante è l’anticipazione della Tangentopoli degli anni ’90 con la prefigurazione quasi divinatoria di certi “attori” della scena politica e imprenditoriale che hanno popolato gli scranni del parlamento e le varie “agorà” televisive negli ultimi trent’anni. Ancora per ribadire, per l’ennesima volta, che il cinema di cui si parla è stato talmente radicato nella realtà sociale italiana contemporanea da riuscire perfino a profetizzarne il futuro

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