Arriva il “commediante on demand”!
La sezione spettacolo del sito di Sky TG24 si arricchisce di una nuova rubrica, che si propone di scovare per voi, nel vasto palinsesto di Sky Cinema, tutto ciò che rientri a qualunque titolo nella formula “commedia all’italiana”.
In viaggico con Il Commediante On Demand
Dalle farse più mature di Totò ai classici di Alberto Sordi, dai capolavori di Risi e Monicelli fino agli “stra-cult” che hanno segnato un’epoca, . Dai film che hanno contribuito a scrivere una pagina di Storia a quelli che ci permetteranno più banalmente di fare un tuffo nostalgico nel passato, per ricordarci come eravamo. Sono queste le pellicole di cui si occupera Il Commediante On Demand, la nuova rubrica della sezione cinema del sito di Sky TG24.
. Si comincia con Il gatto, una commedia politica e grottesca diretta nel 1977 da Luigi Comencini e interpretata da due mattatori del “genere” come Ugo Tognazzi e Mariangela Melato. Buon divertimento!
Luigi Comencini. Il lato amaro della commedia.
Padre della scenografa Paola e delle registe Francesca e Cristina (e perciò anche nonno dell’ex ministro Carlo Calenda, che esordì nel suo adattamento televisivo del libro Cuore); Luigi Comencini, nato a Salò l’8 giugno del 1916, viene da molti considerato, chissà quanto a proposito, uno dei padri nobili della commedia all’italiana, insieme a Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola. A ben vedere, però, al regista lombardo meglio si attaglia l’altra definizione che gli fu attribuita, quella di “regista dei bambini”, avendo dedicato alla età più tenera buona parte delle sue fatiche cinematografiche, dal suo esordio sul grande schermo, Proibito rubare (1948), al celeberrimo Le avventure di Pinocchio, miniserie in 6 episodi, andata in onda sulla Rai nel 1972.
Se si scorre la sua filmografia, si scopre infatti che i titoli che si possono inscrivere a pieno titolo in quel “macrogenere” tipicamente nostrano, che dal 1958 de I soliti ignoti al 1980 de La terrazza ha fustigato i costumi dei nostri conterranei, tenendosi sempre in miracoloso equilibrio tra il comico e il drammatico, non sono che poco più di un pugno. Sicuramente Tutti a casa (1960), A cavallo della tigre (1961) e Il commissario (1962), che però sono talmente permeati della poetica degli sceneggiatori che li scrissero (Age e Scarpelli) da fare quasi storia a sé. E poi, più tardi, Lo scopone scientifico (1972) e L’ingorgo (1979), i quali appartengono tuttavia alla fase più estrema e finale di un genere cinematografico che aveva dato il meglio di sé ai tempi del miracolo economico, il famoso boom. Tempi di entusiasmo vitalistico e smodato (Il sorpasso) di un’Italia pezzente che si stava ancora risollevando dalle macerie della guerra sulla spinta di un palpito pluralistico (I soliti ignoti). Ecco, rispetto a tutto ciò Comencini è sempre sembrato tenersi un poco discosto, più interessato alle trame gialle o nere (se non ci fosse stato Alberto Sordi lo stesso Tutti a casa si sarebbe classificato a fatica tra le commedie) oppure agli intrighi rosa, di cui fu un vero maestro, avendo inventato col suo Pane, amore e fantasia (1953) il cosiddetto “neorealismo rosa”; quello che secondo la severa critica militante di allora aveva svenduto gli ideali morali e politici del neorealismo propriamente detto, dando la stura a commedie sentimentalistiche che del suo nobile predecessore conservavano ormai solo i “panni sporchi” indossati da attraenti “maggiorate fisiche”, così come venne definita l’eroina di quei titoli Gina Lollobrigida (nell’episodio “Il processo di Frine” contenuto nel film di Alessandro Blasetti, Altri tempi - Zibaldone n. 1) .
La commedia degli anni di piombo
Per tornare a Il gatto occorre dunque fare un bel balzo in avanti, per giungere a quella che il più eminente tra gli studiosi della “commedia all’italiana”, Enrico Giacovelli, ebbe a definire “La commedia degli anni di piombo”. È arcinoto infatti che sul finire degli anni ’70 la nostra povera patria venne investita da una ondata di violenza inaudita: dalla strage di Piazza fontana del 1969 a quella della Stazione di Bologna del 1980, il nostro Belpaese fu teatro più o meno consapevole di stragi parzialmente impunite e assassinii politici del partito della lotta armata di destra e di sinistra, che la commedia registrò come un tragico sismografo con un tempismo implacabile. Anni in cui un regista gioioso come Dino Risi realizzava opere cupe come Caro papà (1979), il cinico burlone Mario Monicelli girava il suo film più tragico, Un borghese piccolo piccolo (1977) e pure Ettore Scola, il più giovane di tutti, il disperato e disperante Brutti, sporchi e cattivi (1976). È perciò del tutto naturale che Comencini, che tra tutti i registi della commedia all’italiana aveva sempre più rimarcato gli aspetti scuri anziché quelli chiari di questo genere anfibio, ora fosse il più incline a sottolineare la drammaticità dei tempi, riducendo la definizione di commedia spesso soltanto al suo aspetto nominalistico da classificazione buona per i manuali. Si veda a tal proposito il già citato L’ingorgo per farsi un’idea di quanto poco rimanesse da ridere in quegli autori e in quei film.
Il degenere e il grottesco.
Sono del resto gli anni in cui si affermano all’interno di questo “macrogenere”, che continuiamo tuttavia a definire “commedia all’italiana”, fenomeni come il Fantozzi di Salce e Villaggio (1975), che darà il via a uno dei franchise più importanti d’Italia e il cinema di Lina Wertmüller, bistrattati dalla critica nostrana ma adorati all’estero: nel 1977 Pasqualino Settebellezze (1975) ottenne una nomination agli Oscar. Opere che segnano un significativo scarto delle storie e degli stili di quelle che un tempo si sarebbero chiamate commedie verso un grottesco acido e cattivo, che introiettava nelle proprie narrazioni, chissà quanto sublimandola, una certa dose della violenza e della volgarità che si erano ormai impossessate della nostra società. Ed è certamente in questo filone che occorre catalogare un film come Il gatto, che narra le gesta tragicomiche di due patetici fratelli (Ugo Tognazzi e Mariangela Melato), che tentano con ogni mezzo, più o meno lecito, di sfrattare gli inquilini di una bella casa al centro di Roma di cui sono i litigiosissimi ed avidi proprietari. Così facendo, finiscono per scoperchiare un infernale Vaso di Pandora, che pare contenere tutte le nequizie di una società che fu già gagliarda ed eroica ai tempi della Resistenza contro il nazi-fascismo, ribalda e rampante ma pur sempre gioiosa ai tempi del boom economico, ed è adesso una sentina di vizi e di amoralità: mafia, prostituzione, spionaggio, contrabbando, traffico di stupefacenti, e via degenerando.
Occorre purtroppo sottolineare che nel calderone di questi peccati capitali all’amatriciana, gli autori finiscono per contenere anche l’omosessualità, seppure con una satira sempre garbata e mai volgare. Il motivo è semplice: nel 1977 le lotte politiche e sociali che hanno nel tempo condotto la comunità LBGT ad ottenere il rispetto dei propri diritti erano ancora ben lungi dal raggiungere le prime significative vittorie, e il politically correct era solo un’astruseria d’oltreatlantico.
Prodotto da Sergio Leone, scritto da Sonego.
Sebbene ne ha di certo prodotti almeno altri 4 o 5 (tra cui Il mio nome e Nessuno di Tonino Valerii del 1973 e Troppo forte di Carlo Verdone del 1986), si tratta dell’unico film ufficialmente prodotto dal “re degli spaghetti-western”, Sergio Leone. Lo produsse con la sua “Rafran Cinematografica”, giovandosi tuttavia anche di capitali francesi giacché quella era l’epoca gloriosa (che però non produsse sempre risultati degni delle premesse) delle co-produzioni europee, principalmente in sodalizio coi cugini transalpini. Ecco perché nel ruolo di uno sfortunato commissario di Polizia troviamo (doppiato in un esilarante romanesco da Ferruccio Amendola) quel Michel Galabru che solo l’anno dopo farà parte del cast di una delle più importanti di queste co-produzioni: Il vizietto (1978), ancora interpretato da Tognazzi. Ed è per questo che, nel ruolo di un prete un po’ improbabile, troviamo il parigino Philippe Leroy, che era divenuto proprio in quegli anni celeberrimo in Italia per aver interpretato il mitico Yanez De Gomera nella miniserie tv, Sandokan (1976). Il resto del cast prevede un ruolo cruciale per una ex modella friulana,allora sulla cresta dell’onda, grazie soprattutto a due occhi azzurri da pubblicità (non per nulla fece da testimonial per un famoso collirio), Dalila Di Lazzaro; e una particina senza dialoghi per il mastodontico Mario Brega che di lì a non molto furoreggerà nei film di Carlo Verdone.
Protagonisti assoluti sono però i fratelli Amedeo e Ofelia Pegoraro, interpretati magistralmente da due attori raffinati come Ugo Tognazzi e Mariangela Melato, come già abbiamo detto. Talmente raffinati da rendere alla perfezione lo squallore morale di due personaggi che paiono esser mossi quasi solo dall’avidità. Lui, untuoso e laido come solo Tognazzi sa essere (basti pensare che si correda il capo con degli improbabili riccioloni rossastri, frutto di bigodini altrettanto incongrui indossati nottetempo), dà il meglio di sé, come spesso gli accadeva, nel rappresentare l’incontinenza senile dei propri appetiti sessuali, l’unica pulsione che sembrerebbe distoglierlo dalla sua sola ossessione: sfrattare costi quel che costi i suoi affittuari. Lei, appassionata di gialli, dimostra in effetti più acume che bassezze, anche se, alla fine dei conti, sembra anch’essa conoscere soltanto il sentimento della cupidigia, e quello di una rabbia atavica nei confronti del congiunto, abbondantemente ricambiata. Giova sottolineare che per questo ruolo la Melato ottenne uno dei quattro meritatissimi David di Donatello della sua carriera.
Anche la troupe è tutta di serie A. Dante Ferretti, che proprio in quegli anni stava per diventare lo scenografo di Federico Fellini. Nino Baragli, montatore di fiducia di Pier Paolo Pasolini e dello stesso Sergio Leone. E, infine, Ennio Morricone, che compose una colonna sonora dal sapore sardonico, capace di commentare al meglio le tragicomiche vicende narrate da Comencini.
Tutto però sarebbe stato inutile se il soggetto e la sceneggiatura non fossero stati concepiti da quel genio incompreso che risponde al nome di Rodolfo Sonego (che il critico Tatti Sanguineti in un suo libro ha brillantemente definito “il cervello di Alberto Sordi”), qui in una rara pausa dal suo storico sodalizio col mattatore romano.