"Favolacce è un film democratico, perché parla a tutti", parola dei Fratelli D'Innocenzo
Dopo aver trionfato ai Nastri d'Argento e vinto al Festival di Berlino il premio per la miglior sceneggiatura, il film dei fratelli D'Innocenzo arriva su Sky Cinema Due venerdì 10 maggio. Abbiamo intervistato i due registi, autori di un cinema originale, sconvolgente e non riconciliato.
“Le poesie hanno i lupi dentro”, scriveva Jim Morrison. Come certi film. Per esempio quelli diretti da Damiano e Fabio D’Innocenzo. Le loro opere ti scrutano, mentre le guardi. Pellicole che squarciano il velo di Maya, per mostrarci la realtà sotto la superficie. Artefici di un cinema crudo, ma mai compiaciuto, accurato, ma mai estetizzante. Dopo il loro film d'esordo, i gemelli D’Innocenzo hanno diretto Favolacce,Orso d’Argento alla Berlinale per la miglior sceneggiatura
Premiato come miglior film ai Nastri d'argento 2020, Favolaccce (le foto del film) è in onda in prima tv, venerdì 10 luglio su Sky Cinema Due, a seguire La Terra dell'Abbastanza, l'opera prima dei fratelli D'Innocenzo.
Per l''occasione lo abbiamo intervistati per approfondire la genesi di questa stratificata, magmatica e straordinaria favola nera.
Si dice che il secondo film sia sempre più difficile da fare rispetto al primo. Voi come vi siete preparati a questa sfida?
Siccome lo sapevamo, ci siamo tenuti il meglio per il secondo. A parte gli scherzi. Favolacce lo abbiamo scritto prima di La Terra dell’Abbastanza. Eravamo consapevoli che non potevamo proporre un film come Favolacce come opera prima. Era necessario esordire con un’opera più codificata che avesse dei riferimenti a un genere preciso come il crime, anche se declinato secondo il nostro stile. La Terra dell’abbastanza ci è servito come lasciapassare, per dimostrare che sapevamo utilizzare il mezzo.
Come vi è venuto in mente un titolo così originale ed efficace come Favolacce?
I titoli sono sempre un colpo di fortuna, e vengono in mente all’improvviso, quindi è inutile arrovellarsi troppo, Favolacce è la semplice crasi tra favole e parolacce e riassume alla perfezione l’identità del film. E poi suona bene.
Qual è la prima cosa che avete pensato quando avete scoperto di aver vinto a Berlino il premio per la miglior sceneggiatura?
Per prima cosa abbiamo telefonato ai nostri genitori. La felicità vera e propria è esplosa il giorno successivo, durante la premiazione quando ci siamo abbracciati e ci siamo voluti regalare dei sorrisi, visto che solitamente siamo molto parchi quando si tratta di manifestare pubblicamente il proprio affetto.
I fratelli Grimm, che di favole se ne intendevano, dicevano che “Ciascuno di noi reca in sé un estraneo inquietante”. Condividete questo pensiero?
Assolutamente sì. Anzi spesso tendiamo a essere alieni a noi stessi. Nascondere la nostra vera natura ci aiuta a vivere nella quotidianità. E in quest’epoca si cerca sempre più spesso di venderci per ciò che non siamo. Si vive una vita in vetrina, in un perpetuo showcase.
Come vi dividete il lavoro?
In realtà operiamo in simbiosi. A volte, vista da fuori, la nostra armonia rischia addirittura di risultare fastidiosa, se non sospetta. Qualcuno immagina che dietro le apparenze ci siano faide o rancori. Ma noi in questo senso siamo molto noiosi, perché andiamo molto d’accordo. Abbiamo quasi sempre lo stesso punto di vista e non c’è una netta divisione dei ruoli sia sul set sia in fase di progettazione. Abbiamo entrambi dei caratteri molto introversi per cui siamo felici di compiere questo percorso insieme. Così non siamo costretti a dover fingere e possiamo essere come siamo davvero.
Favolacce racconta anche l’assordante silenzio che ci circonda. E' un film dai dialoghi scarni. Come siete riusciti a raccontare per immagini una cosa così complessa in un’opera che mi pare attinga alla letteratura americana contemporanea?
Abbiamo scritto Favolacce a 19 anni. Avevamo passato il liceo a leggere Carver, Updike Cheever, David Foster Wallace, Paul Auster, e quindi le influenze ci sono. In seguito non abbiamo più ritoccato la sceneggiatura. Eppure il film sembra scritto ora e risulta attuale, con quei riferimenti alla convivenza forzata, una condizione comune a tutti in questo momento condizionato dall’emergenza Coronavirus. Succede quando lavori e scrivi di archetipi.
Poi crediamo che Favolacce sia un film democratico. Amiamo le pellicole che lasciano tante finestre aperte. Vogliamo che il pubblico sia parte integrante del film e quindi lo possa interpretare e non che sia un semplice spettatore.
In Favolacce, Max Tortora dà la voce al narratore. Aveva già lavorato con lui in La Terra dell’Abbastanza. Cosa vi affascina di Max?
Tutto. Io me lo sposerei (lo dice ridendo ndr) Massimiliano è molto simile a noi, è introverso. Frequenta l’ironia che forse è l’unica forma di salvezza che abbiamo. La vita, in fondo, è il più grande comico che esista, basta pensare a quello che capita a tutti nel corso della propria esistenza. E poi Max è uno dei più bravi attori che abbiamo in Italia, spesso sottovalutato. E siamo felici che dopo La Terra dell’abbastanza abbia potuto dimostrare il suo talento anche in ruoli seri, come in Sulla mia pelle di Cremonini o La volta buona di Vincenzo Marra.
Max è un prestigiatore, con le sue capacità attoriali, ti mostra una cosa che sino a 5 minuti fa non esisteva. Ed è una persona straordinaria da frequentare anche fuori dal lavoro, è pieno di intuizioni brillanti.
Invece, Elio Germano come lo avete scelto?
Per noi poteva essere solo Elio a interpretare il personaggio di Bruno. Saremmo entrati in crisi se non avesse potuto interpretare il film. E’ un autore che rifiuta i manierismi e ama farsi sorprendere ed emozionare dalle situazioni. Lo conosciamo da diversi anni e si è sempre dimostrato molto interessato ai nostri lavori.
Come siete riusciti a far recitare dei bambini che nel film risultano sempre assolutamente naturali e credibili?
Abbiamo rifiutato categoricamente la figura dell’acting coach, che di solito viene sempre utilizzato quando sul set ci sono dei minori. Non volevamo avere filtri e ci sembrava irrispettoso nei confronti dei bambini creare delle gerarchie. Ci siamo messi sul loro piano, alla loro altezza e in questo caso siamo noi che abbiamo dovuto fare un salto perché spesso i bambini ci sono superiori in poesia e fantasia, in perspicacia. Non gli abbiamo dato la sceneggiatura da leggere, ma ogni giorno gli spiegavamo la scena che avremo girato.
Il film si chiude con "La Passaglia della vita" eseguita da Rosemary Standley & Dom La Nena. Come mai un brano cosi particolare?
Era uno di quei pezzi che ci ronzava in testa. E’ un inno religioso del Seicento che sembra scritto apposta per Favolacce. E il fatto che venga cantato in italiano da un’artista franco-americana lo rende ancora più spiazzante. Quella voce carezzevole, che sa di vita, anche se canta di morte, ci sembrava un contrappunto perfetto.
Paulo Coelho diceva che “In ogni istante della nostra vita abbiamo un piede nella favola e l’altro nell’abisso”. A voi dove sembra di stare in questo momento?
Uno non esclude l’altro. Noi siamo una bella favola in pieno oceano, in mare aperto. A noi non interessa chi divide il mondo tra il bianco e il nero. Ci piacciono le contraddizioni, le sfumature. Certo personalmente ci fidiamo più dell’abisso che della favola.
Cosa potete anticiparci della serie tv che vedremo prossimamente su Sky?
E’ un progetto ambizioso. Una sfida. Dopo aver girato due film vogliamo cambiare genere e registro. Per noi è anche un modo di rimetterci in gioco, di provare paura che per noi non è mai una sensazione castrante o limitante, anzi accresce la nostra curiosità. E poi siamo felici di lavorare a questo progetto insieme a Sky Studios, abbiamo con loro una totale comunione di intenti.
Infine come state emergenza Coronavirus?
E’ un periodo complicato per tutti, ma credo che a soffrirne di più siano le persone che sono nelle carceri, i senzatetto, gli anziani. Noi cerchiamo di restare tranquilli, senza lamentarci troppo, un po’ come fece Hemingway quando affrontò la quarantena. E quindi ne abbiamo approfittato per scrivere moltissimo, dalla sceneggiatura del terzo film alla serie tv. Ma anche se non avessimo avuto niente su cui lavorare non ci saremo lamentati. Non fa parte del nostro carattere.