L’étranger di Ozon in concorso alla Mostra di Venezia, tra Camus e i Cure. La recensione
Spettacolo ©GettyAlla Mostra del cinema di Venezia François Ozon porta L’étranger, tratto dal romanzo di Albert Camus. Girato in bianco e nero con Benjamin Voisin e Rebecca Marder, il film racconta l’enigma di Meursault, l’indifferenza di fronte alla morte e il peso di un sole che acceca. Tra memoria coloniale, riflessione filosofica e sguardo contemporaneo, Ozon chiude con Killing an Arab dei Cure, restituendo al testo tutta la sua potenza poetica e politica
Il ritorno dello straniero
A più di ottant’anni dalla pubblicazione, L’étranger di Albert Camus continua a risuonare con la stessa potenza di un enigma irrisolto. Dopo Luchino Visconti nel 1967, è François Ozon a raccogliere la sfida di adattare per il cinema uno dei romanzi più celebri e letti del Novecento. Lo fa presentandolo in concorso a Venezia 82, con un film rigoroso e poetico, che sceglie il bianco e nero come linguaggio estetico e morale.
Ozon ha confessato che affrontare un testo tanto iconico lo ha messo in uno stato di ansia e dubbio. Ma l’interesse per la materia era più forte delle apprensioni: nelle pieghe del romanzo ritrovava una parte rimossa della sua storia familiare. Il nonno, giudice istruttore a Bône negli anni ’50, sfuggì a un attentato durante la guerra d’Algeria, e quell’episodio segnò per sempre il destino dei suoi cari. Portare Camus al cinema significava dunque fare i conti non solo con la letteratura, ma anche con una memoria personale e collettiva.
Un racconto di sole e silenzio
La trama è nota: Algeri, 1938. Meursault, un impiegato sulla trentina, partecipa al funerale della madre senza versare una lacrima. Il giorno dopo inizia una relazione con Marie, collega vivace e solare, ma la sua quotidianità viene presto sconvolta dal vicino Raymond Sintès. Sarà una giornata di sole implacabile, sulla spiaggia, a condurre all’omicidio di un arabo e alla condanna del protagonista.
Camus aveva scritto che Meursault è colpevole perché “non vuole stare al gioco”. Ozon restituisce questa estraneità con inquadrature statiche, ritmi lenti, corpi immersi in un bianco e nero rarefatto che sembra sospendere il tempo. Il regista rinuncia alla spettacolarità e punta alla nudità del gesto, alla verità dei silenzi.
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Benjamin Voisin e Rebecca Marder, un amore di coppia
Benjamin Voisin si confronta con il ruolo di Meursault cercando un equilibrio tra opacità e tensione fisica. Non interpreta, ma abita l’assenza, in linea con gli insegnamenti di Robert Bresson che Ozon gli ha indicato come modello. Il suo Meursault osserva senza partecipare, mangia, fuma, risponde quando interpellato, fino a diventare spettatore della propria vita.
Accanto a lui, Rebecca Marder dona profondità a Marie Cardona, personaggio poco definito nel romanzo. Nel film diventa incarnazione della vita e della sensualità, contrappunto luminoso all’indifferenza del protagonista. Ozon sceglie di ampliare anche la figura di Djemila, sorella dell’uomo ucciso, che qui ha voce e volto, a sottolineare come l’arabo, nel processo e nella memoria, sia spesso cancellato.
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Un film di memoria e filosofia
Ozon intreccia così più livelli: l’adattamento letterario, la memoria coloniale, la riflessione filosofica. La scelta del bianco e nero non è solo economica ma estetica: restituisce purezza, astrazione, un’aura quasi metafisica. L’Algeri degli anni ’30 vive attraverso immagini d’archivio, a evocare un paradiso perduto e una convivenza impossibile tra comunità separate.
Il processo, cuore della seconda parte, non diventa trattato filosofico ma teatro di corpi e voci. Ozon rifiuta la lezione didascalica, preferendo una dimensione sensoriale e poetica. Nei momenti chiave utilizza la voce di Camus come voice-over, fondendo la potenza della parola letteraria con la forza del cinema.
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La musica: da Fatima Al Qadiri ai Cure
La colonna sonora porta la firma della compositrice kuwaitiana Fatima Al Qadiri, già autrice di partiture sospese tra elettronica e tradizione orientale. Il suo intervento conferisce al film un tono ipnotico e inquieto. Ma è nei titoli di coda che Ozon compie la scelta più radicale: far risuonare Killing an Arab dei Cure.
Scritta da Robert Smith da adolescente, la canzone è un piccolo poema punk ispirato proprio a Lo straniero. Spesso fraintesa, accusata ingiustamente di razzismo, censurata e rimaneggiata, ritrova qui la sua collocazione originaria: eco musicale di Camus, condensazione sonora dell’omicidio sulla spiaggia e della vertigine dell’assurdo.
Ozon, Camus e la vertigine dell’estraneità
Il film non è un adattamento filologico, ma un dialogo con un classico. Ozon lo tradisce per restituirne la verità più profonda: l’impossibilità di essere ridotto a un’unica interpretazione. Camus sfugge, e anche il film lascia lo spettatore con più domande che risposte.
In questo sta la sua forza: L’étranger non è un monumento, ma una ferita che continua a sanguinare. È il romanzo dell’estraneità, e Ozon ne rinnova il mistero con un linguaggio che unisce letteratura, immagine e musica.
Se L’étranger fosse un cocktail
Sarebbe un Dry Martini lasciato sotto il sole d’Algeri. Elegante, cristallino, ma con un retrogusto amaro che brucia le labbra. Un cocktail che non consola, che non addolcisce, ma rivela la nudità delle cose. Come Meursault, sembra semplice e trasparente, eppure porta in sé l’eco dell’assurdo: ghiaccio che si scioglie troppo in fretta, luce che acceca, alcol che brucia. Un brindisi al paradosso della vita, alla dolce indifferenza del mondo che Camus evocava e che Ozon, oggi, ci restituisce in immagini. Forse siamo tutti colpevoli, tutti condannati, eppure siamo ancora qui, ineluttabilmente umani.