Mattia Torre, il ricordo della moglie Francesca Rocca nel quinto anniversario della morte

Spettacolo

Gianmaria Tammaro

Francesca Rocca ai David di Donatello 2021. In quell'occasione la figlia Emma ritirò il premio per la miglior sceneggiaruta vinto dal padre Mattia Torre (foto dal sito "Accademia del CInema Italiano - David di Donatello)
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Il 19 luglio del 2019 ci lasciava il grande sceneggiatore, commediografo e regista italiano. Per l'occasione il giornalista Gianmaria Tammaro ha incontrato la consorte di Torre che racconta: “Per quanto mi riguarda, Mattia rimane in tutte le cose che abbiamo vissuto e amato insieme; è nei nostri figli"

Quando il 19 luglio di cinque anni fa è morto Mattia Torre, si è creata come una spaccatura. C’è un prima e c’è un dopo. E in questa divisione, il tempo si confonde, si accavalla, il passato sostituisce il presente e il presente sostituisce il passato. È come se non se ne fosse mai andato via, Mattia. Perché restano le cose che ha scritto e diretto, i monologhi per il teatro, i libri, i film, le serie (da Boris, co-creata con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, a La linea verticale, da pochi giorni disponibile sia su Raiplay che su Netflix). E restano gli sms che mandava, le parole che diceva e, soprattutto, il ricordo di chi l’ha conosciuto e amato. Francesca Rocca, la moglie di Mattia Torre, ha vissuto con lui per quattordici anni, condividendo qualunque cosa. Gioie, pianti, risate, incazzature, emozioni. Oggi lo ricorda con amore, senza mezzi termini o frasi di circostanza, in modo estremamente sincero. Per lei e per i loro figli, Emma e Nico, e per gli amici di sempre, la famiglia allargata che frequentava la loro casa e le persone che, nelle cose che Mattia ha scritto, si sono ritrovate. A volte Francesca parla al presente, altre al passato. E ritorna quello che dicevamo all’inizio: quando è scomparso Mattia, nel 2019, si è creata una crepa, una finestra che si affaccia contemporaneamente in due direzioni. Di qua, nel nostro adesso, e di là, nella memoria che non passa.

Intervista a Francesca Rocca

Quando vi siete conosciuti?
“Era la fine del 2005. Avevo 25 anni, Mattia 33”.

E lei faceva l’attrice.
“In realtà, avevo appena deciso che non l’avrei fatta più. Mattia era felicissimo di questa cosa. (ride, ndr)”

Perché?
“Perché diceva che quello dell’attore è un mestiere tremendo”.

Lei aveva già sentito parlare di Mattia?
“Io avevo visto due suoi spettacoli quando ancora non lo conoscevo. Avevo visto In mezzo al mare e Tutto a posto, ed ero rimasta folgorata. Mi sono laureata in Istituzioni di Regia alla Sapienza e all’epoca studiavo teatro. Per diverso tempo ho fatto anche l’aiuto. Mattia mi sembrava una delle nostre punte di diamante, uno dei giovani emergenti più talentuosi”.

A un certo punto, vi hanno presentato.
“La prima volta è stata subito dopo In mezzo al mare. Ma è stata una cosa veloce. La seconda volta, invece, ci siamo visti a Il Locale, quel posto meraviglioso che si trovava a piazza del Fico. E lui mi ha detto – lui, a me, con quegli occhi all’ingiù – ‘come mai hai lo sguardo così malinconico?’”.

E lei che cosa gli ha risposto?
“Che lo sguardo malinconico ce l’aveva lui, non io. Comunque ci siamo conosciuti prima dell’estate; mi ha invitato all’Ambra Jovinelli per vedere Migliore, e lì sono rimasta un’altra volta folgorata. E poi mi ha invitato all’IKEA”.

All’IKEA?
“Sì, all’IKEA. Dovevamo comprare entrambi una scarpiera e alla fine, indovini, non abbiamo preso niente. Siamo tornati a casa a mani vuote. Avevamo parlato per tre ore senza fermarci, girando tra stanze e cucine di altri. In autunno, mentre davo gli ultimi esami, mi ha portato a pranzo vicino al mare e lì mi ha detto che mi voleva baciare. Io gli ho risposto di no, che era meglio abbracciarsi. E invece ci siamo baciati. E dopo quel momento, per quattordici anni, non ci siamo più lasciati. È stata una storia incredibile, in tutti i sensi”.

Perfetta, ha detto, parla di lei.
Perfetta sono io. (ride, ndr) Mattia ha conosciuto cose di me che ancora oggi mi sorprendo che abbia capito. Ma è vero anche che Perfetta è Geppi (Cucciari, ndr) e alla fine è anche la somma di tutte le donne che facevano parte della sua vita. Aveva tantissime amiche, Mattia. Tantissime. In Perfetta, c’è il femminile da cui veniva continuamente circondato”.

Che rumore faceva Mattia quando scriveva?
“Assordante. Aveva un pc nuovo, ma usava una tastiera vecchissima, quella che aveva sempre usato. Scriveva senza guardare i tasti e sui tasti, oramai, non c’era nemmeno una lettera. E quando andava a capo batteva con forza, come se stesse usando una macchina da scrivere. E andava velocissimo. Però per poco”.

In che senso?
“Nel senso che Mattia raccoglieva tutto, teneva insieme, e solo alla fine si sedeva e scriveva. E quando scriveva, non perdeva tempo. In quattro o cinque giorni, svegliandosi la mattina presto e prendendosi appena qualche pausa, finiva tutto. E poi basta”.

Basta?
“Pensi: abbiamo fatto delle litigate furibonde, io e Mattia. Io facevo il mio lavoro in ospedale, tornavo, cucinavo ed ero sempre impegnata in casa. Lui, delle volte, stava seduto davanti alla finestra a non fare niente. E mi diceva: guarda, ti sembrerà incredibile, Frou, ma io io sto lavorando”.

E lei?
“E io lo mandavo a quel paese. Ma era vero: immagazzinava informazioni e spunti e poi li metteva giù. Aveva questi file enormi, ordinati per categorie, sul suo computer. E lì raccoglieva le idee e le cose che, ne era certo, avrebbe messo in un prossimo spettacolo. Il modo in cui componeva era molto interessante. Partiva sempre da una suggestione, poi costruiva una specie di scheletro, con i possibili risvolti, trovava una storia e il finale lo scopriva solamente scrivendo”.

Quante cose sono rimaste inedite?
“Molte. Con A questo poi ci pensiamo (pubblicato da Mondadori, ndr) abbiamo provato a pubblicare un libro postumo con pezzi che reputavamo incredibili. Avevamo a disposizione quattro computer, due hard disk d’oro. Uno ce l’aveva Mastandrea, che poi però ci ha restituito perché non ce la faceva a tenerlo, e l’altro Aprea. Ci siamo messi a leggerli separatamente. Ed è stato tremendo ed esaltante. Mattia era molto riservato, non dava nessun accesso alle sue cose. Prima di far leggere agli altri quello che scriveva, doveva esserne sicuro”.

Quando ne era sicuro, lei era la prima persona a cui le faceva leggere?
“Era un momento importante. Perché voleva dire che era finita la fase della macchina da scrivere. Poi c’erano Aprea, Mastandrea e altri di cui si fidava. Servivamo per fare delle scremature, delle prove generali. Quando io leggevo, avevo una penna blu per le cose che mi facevano ridere e una rossa per quelle che non mi convincevano. E ogni volta che Mattia mi sentiva ridere, si affacciava, chiedeva a che punto fossi, voleva sapere. Per il resto del tempo andava avanti e indietro per casa, nervosissimo”.

Seguiva i consigli che gli dava con la penna rossa?
“Sì, assolutamente. Poterlo leggere è stato una scuola eccezionale. E poi era molto divertente, perché non avevo alcun dovere, non era il mio lavoro, c’era una grande intelligenza condivisa. Mattia diceva che quello che faceva ridere lui, Giacomo (Ciarrapico, ndr) e Luca (Vendruscolo, ndr) faceva ridere tutti. E quello che non lo divertiva non gli interessava”.

Ha cominciato a scrivere per il teatro anche su spinta di Valerio Aprea, che gli aveva segnalato la rassegna teatrale di Ennio Contorti.
“Era il 2004, se non sbaglio. Attore in cerca d’autore era un’iniziativa del Teatro Valle. E Aprea gli ha detto: perché non scrivi qualcosa? E lui, Mattia, ha scritto la prima parte di In mezzo al mare. Però lui il teatro lo conosceva già. L’aveva già masticato insieme a Giacomo. In mezzo al mare fu il suo primo monologo. E aveva una paura blu. All’epoca ancora non lo conoscevo, però mi ricordo che i miei amici parlavano con entusiasmo di questo Torre che aveva vinto un concorso”.

Ha rivisto anche l’articolo che Mattia aveva scritto per le pagine de Il Foglio curate da Annalena Benini? Quello da cui, poi, è stato tratto Figli?
“Sì, e abbiamo litigato. Nella prima stesura della sceneggiatura, c’era scritto che avevamo avuto Nico, il nostro secondo figlio, dopo un’ubriacatura da Bloody Mary. E non era per niente vero. L’avevamo voluto, Nico. L’avevamo voluto tantissimo. Ma tutte le cose che scrive, come La linea verticale, sono in parte diverse rispetto alla realtà. Io, nella mia miopia, volevo più giustizia per la verità. Lui, invece, mi ricordava che stava scrivendo, che nella scrittura si può e si deve inventare. Il secondo figlio non ti deflagra la vita così. Il nostro problema fu che, insieme al secondo figlio, arrivò anche il cancro di Mattia”.

Una volta Valerio Mastandrea mi ha detto di cercare Mattia nelle cose che scriveva. Cos’è, secondo lei, che contraddistingue il suo stile?
“La capacità di osservare il reale, quello che ci sta intorno, facendoti dire: è proprio vero. Mattia non si fermava mai alla prima osservazione facile, a quella più superficiale. Andava sempre oltre. Sempre a fondo. Con una lente da sociologo, ti portava dove voleva lui, in un luogo che non potevi nemmeno immaginare. Quando lavorava con Luca e Giacomo, si divertivano come matti. Si circondavano di post-it, di idee, e le affrontavano una per una, incrociandole. Mattia sapeva partire dal particolare di una cosa che lo aveva incuriosito e poi si allargava a tutto il resto, e ti faceva ridere, sì, ma riusciva pure a colpirti. Mattia sapeva presentarti anche il lato più amaro”.

Mattia diceva che la commedia è una cosa seria, una cosa sacra. Si arrabbiava quando la vedeva sottovalutata?
“Non credo che si arrabbiasse; penso però che si imbarazzasse per le cose comiche, o presunte comiche, che non portavano da nessuna parte. Rideva per cose che magari non ti aspettavi, come gli spettacoli di Maurizio Battista. Gli piaceva quel ritmo. Diceva che era una comicità di una velocità assurda. Spaziava, Mattia. Non era snob. Sentiva di far parte di una minoranza, perché scriveva testi quasi anglosassoni. Si trovava a metà, tra il teatro più popolare e il teatro super ricercato. Faceva quello che gli piaceva e ci teneva a non fare spettacoli più lunghi di un’ora e mezza”.

Perché?
“Quando andavamo a teatro, e ce lo portavo io, lui scalpitava, mi faceva sempre la stessa domanda: ‘Quanto dura?’ La comicità, diceva Mattia, serve a portare a bordo le persone, a coinvolgerle, per poi condurle dove vuoi. Il dove vuoi può essere qualunque cosa, anche la morte”.

Perché gli sms? Non usava Whatsapp, Mattia.
“Odiava i social. Provava un vero e proprio orrore per Instagram e Whatsapp. Usava solo i BlackBerry. Di fatto, pensi, ne ha avuti quindici. A volte cadevano e si rompevano, altre volte li lanciava. E mandava solo sms, sì. Sms, come può immaginare, dorati. Stupendi. Nessuno di noi dopo la sua morte ha buttato un cellulare per non rischiare di perderne qualcuno”.

Mi parla della famiglia allargata di Mattia?
“Quando Mattia è morto, come spesso succede quando qualcuno muore, dei rapporti si sono persi mentre altri si sono rafforzati ancora di più. E così alcune delle persone che lo frequentavano, che ci frequentavano, sono diventate dei parenti. All’inizio, non glielo nascondo, è stato doloroso. Ma è vero che Mattia è morto per tutti, non solo per me, Emma e Nico; e ognuno ha vissuto la sua morte in un modo particolare e personale. Alcuni si sono allontanati perché non riescono a vedere Nico crescere e diventare sempre più uguale a Mattia, e lo stesso vale per Emma. Altri, invece, ci sono sempre. Ogni 10 giugno, il giorno del compleanno di Mattia, ci riuniamo per stare insieme. Pensi che Aprea va a prendere Emma a danza ogni martedì, alle nove e mezza di sera; poi si ferma a cena da noi. E Aprea ha una vita infernale, piena di cose da fare. Mastandrea, invece, ci chiama spesso per sapere come stiamo e ci frequentiamo molto. È importante accettare il fatto che ognuno di noi ha un suo Mattia. Non ci siamo solo io, Emma e Nico”.

Le capita mai di rileggere o di rivedere le cose che ha fatto Mattia?
“Guardi, l’altra sera sono tornata a casa dopo essere andata al cinema per Io e il Secco ed Emma e una sua amica stavano rivedendo Figli La linea verticale. Non mi capitava di guardarli da un po’ di tempo. In realtà, spesso rileggo le nostre cose, quello che ci scrivevamo, e mi fa bene. Mi fa ancora molto ridere, Mattia. Anche per questo mi impegno ogni giorno per mettere in scena i suoi spettacoli; credo che possa fare bene anche agli altri”.

Dov’è, oggi, Mattia?
“Per quanto mi riguarda, rimane in tutte le cose che abbiamo vissuto e amato insieme; è nei nostri figli. Ma è anche, per dirle, nei film di Baumbach, che adorava, nei libri di Borges e in tutta quella letteratura che spizzicava quotidianamente. D’estate e d’inverno, si faceva delle grandi riletture. Aveva sempre libri sul comodino, e vedevamo un sacco di film e di serie. Adorava The Tree of Life di Malick, anche se era così distante da lui e dal suo modo di raccontare; ne adorava le luci e la ricchezza. Aveva delle suggestioni e dei riferimenti che non erano come lui era… come lui è. Erano come dei viaggi molto lontani, in cui però riusciva a trovare ciò che voleva essere e raccontare. E poi Mattia, oggi, è in un’altra cosa”.

Mi dica.
“Alla scuola Gian Maria Volonté, grazie a Pietro Sermonti, Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggieri hanno tenuto tre settimane di lezioni su Mattia. Alla fine c’è stato un saggio e vedere attori giovanissimi, che forse non conoscevano nemmeno Mattia, interpretare i suoi testi più famosi, da Migliore a Perfetta a In mezzo al mare, è stato bellissimo. Ecco, Mattia è anche lì oggi: in questa facce nuove, fresche, che parlano e recitano le sue parole”.

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