Amalia Ercoli Finzi, signora delle comete: “Ritorno sulla Luna? Siamo già partiti!"

Professoressa Ercoli Finzi, sono passati dieci anni dalla missione Rosetta e dall’atterraggio su una cometa a 500 milioni di chilometri da noi. Che cosa ha rappresentato quel momento e più in generale quella missione per lei? Quel momento ha rappresentato un riconoscimento e una grande vittoria per tutti noi perché è stata la prima volta che l’Europa faceva un atterraggio morbido, e poi su un corpo come quello della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, che più brutta di così non potevano darcela! È stato il momento in cui l’Europa ha dimostrato di avere le capacità per fare le grandi missioni, e si noti che erano tali gli obiettivi che ci eravamo dati per questo accometaggio che anche gli americani, i quali inizialmente avevano deciso di lavorare con noi, si erano tirati indietro pensando che la missione fosse troppo difficile; noi invece abbiamo dimostrato non solo che eravamo capaci di farlo, ma soprattutto che avevamo le capacità per atterrare su un corpo celeste a 500 milioni di chilometri dal sole, quindi a una distanza enorme. E lei come ha reagito al momento dell’atterraggio? …Guardi glielo devo raccontare perché è andata proprio così. Fino a un attimo prima con il cuore in gola, e poi mi sono messa in un angolo e ho detto: Signore, noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Adesso tocca a te! E il Signore mi ha accontentato, mi ha ascoltato. Da quella missione lei è diventata la Signora delle Comete, le piace essere definita così? Tantissimo, perché a me piacciono molto le comete. La cometa è un corpo che ci diletta con la sua presenza con la sua coda meravigliosa che spesso, in molti casi, si vede ad occhio nudo; anzi, queste due code, perché la cometa di code ne ha almeno due. Noi possiamo vedere la cometa e con lei pensare di passare attorno al Sole e poi tornare al nostro mondo buio e silente, aspettando di essere di nuovo chiamati dalla nostra stella. Quali sono secondo lei gli ingredienti per una buona missione spaziale, che cosa serve? Servono le competenze, questo è sicuro, serve avere ben chiaro l’obiettivo che si vuole perseguire, ma soprattutto ci vuole tanta collaborazione; io sono convinta che non saremmo riusciti a fare quello che abbiamo fatto, soprattutto non saremmo riusciti a partecipare alle tante missioni a cui l’Europa sta partecipando, se non avessimo avuto questo spirito di collaborazione. Quando le cose non vanno bene il problema non è trovare il capro espiatorio, ma risolvere il problema, cosa che l’Europa ha dimostrato di saper fare. Quali delle missioni presenti e future l’affascinano di più? Certamente, me lo lasci dire, Solar Orbiter, proprio perché noi del Sole sappiamo poco, pochissimo e si noti che è la stella che ci consente la vita; quindi, se noi conoscessimo bene come funziona il sole e da che cosa dipende la nostra vita, probabilmente potremmo stare anche un po’ più tranquilli. Ecco, Solar Orbiter si propone di arrivare a una latitudine massima di 33 gradi, il che vuole dire vedere non solo l’equatore del sole, chiamiamolo così, ma anche le parti alte della corona solare delle quali non sappiamo niente, soprattutto per quello che riguarda le temperature. Impareremo? Certamente! Siamo qui per questo. Ha citato le stelle, che nella sua vita sono molto importanti. Come si fa ad andare oltre le stelle più lontane, per citare il titolo di un suo libro? Ci si va con la fantasia, una fantasia che si basa sulle competenze e sui mezzi che possediamo. Noi per ora non possiamo arrivare alle stelle, ma coltiviamo la speranza di trovare mondi nuovi e se pensiamo di sfruttare le tecnologie di cui ci stiamo impadronendo, forse un giorno riusciremo anche ad andare oltre le stelle più lontane. Professoressa, ci siamo per davvero, stiamo per tornare sulla Luna? E che senso ha andare nuovamente lassù? Stiamo proprio tornando, anzi siamo già partiti! Questo programma si chiama Artemis, che poi è Diana, perché Artemis era la Diana dei Greci, ed è in pendant con il programma Apollo, quello degli anni ’60 tutto maschile, ma adesso speriamo che sia un programma anche un po’ femminile. Siamo già partiti per la Luna, la prima missione è stata fatta. A dire il vero, e non ho capito il perché, non le è stato dato il giusto rilievo, e pensare che abbiamo fatto una cosa fantastica perché abbiamo sperimentato il lanciatore SLS, Space Launch System, che detto tra noi se l’avessero chiamato Giovanni sarebbe stato più semplice, ma insomma hanno preferito chiamarlo così! La capsula è in parte americana, quella che rientra, mentre il modulo di servizio che sta dietro la capsula, quello che consente di far vivere gli astronauti, è prodotto dall’Europa. Noi eravamo già pronti, avevamo questo veicolo, Automated Transfer Vehicle, di cui abbiamo fatto cinque esemplari e che ha funzionato meravigliosamente. Quindi, lanciatore, capsula, abitacolo per gli astronauti, ma soprattutto con la missione Artemis-1 noi abbiamo sperimentato, nel senso che abbiamo fatto viaggiare questo oggetto, sull’orbita dove posizioneremo il Gateway, la stazione spaziale lunare. La missione è andata benissimo, ci siamo messi su quest’orbita complicata e bellissima, che gli americani hanno chiamato Angelic Halo orbit, cioè Aurora angelica, e che ha il pregio rispetto a tutte le altre di essere sempre in vista del nostro Pianeta, ovvero senza eclissi dalla Terra. Questo vuol dire che noi vedremo sempre la Stazione spaziale lunare intanto che orbita. Ricapitolando, abbiamo fatto tutto, siamo rientrati perfettamente, eppure niente, ne hanno parlato in pochissimi e questo mi fa dispiacere perché in realtà era un evento da valorizzare, anche se non c’era un equipaggio ma tre manichini, di cui uno intero con tanto di arti, per sperimentare gli effetti che il lancio e la messa in orbita avrebbero avuto sul corpo umano. Quello che non sono riuscita a capire è se il manichino rappresentasse un uomo o una donna, comunque c’erano anche due tronchi, per vedere sulle componenti fondamentali del nostro fisico, come cuore, reni e altri organi, gli effetti del viaggio. Sì, siamo partiti e andremo avanti, perché si tratta di un grande programma che ha molte ambizioni. Che cosa pensa dell’idea di Elon Musk di trasformarci in una specie multiplanetaria e colonizzare il pianeta Marte? L’idea è affascinante e sono convinta che se succedesse qualcosa di terribile per la Terra e noi, intendendo con noi le future generazioni, fossimo obbligati ad andarcene dal nostro Pianeta l’unico posto dove andare sarebbe Marte. Noi potremo andare su questo pianeta roccioso che si presta ad accogliere la vita, anche se dovremo lavorare tanto per riuscire a farlo, anche perché secondo me e secondo moltissimi la vita c’è già stata; quindi, possiamo trovare l’acqua e un ambiente dove stare. Il problema vero di inviare adesso una missione umana, quindi un equipaggio, è dovuto a un problema astronomico: per andare su Marte bisogna trovare il momento in cui la distanza Marte-Terra è la più piccola possibile e questa si ha quando il pianeta è in opposizione, cioè allineato Marte-Terra-Sole. Anche per rientrare dovremo trovare una soluzione del genere, proprio per ragioni di distanze, e quindi ancora con Marte in opposizione, cosa che avviene ogni due anni. Il che vuol dire che noi partiamo, facciamo un viaggio di 6-7 mesi a seconda degli strumenti che adoperiamo per andare, altrettanti mesi per rientrare, ma il tempo in mezzo per arrivare ai due anni e poter compiere il ritorno li dobbiamo passare su Marte. Questo significa costruirci un avamposto, e mettere in piedi anche un piccolo orto per poter mangiare qualche cosa di civile. Lei professoressa andrebbe nello spazio se ne avesse l’opportunità? Io ho sempre pensato di non essere una donna da spazio perché soffro anche l’ascensore, quindi per me il viaggio in microgravità sarebbe una cosa tremenda. Quello che trovo fantastico invece è stare nella stanza dei bottoni quando si fanno le manovre e in questo caso, accendendo opportunamente i razzi a seconda di quello che abbiamo deciso di fare, si vede il nostro veicolo che compie il suo viaggio orbitale lontano, e questo per me è bellissimo. L’Italia ha celebrato i sessant’anni dall’inizio della sua avventura spaziale. Secondo lei, c’è un fattore Italia quando parliamo di spazio? Sessant’anni è vero, e a dire il vero io ero già grande, perché nel 1957 ho assistito alla radio al bip-bip dello Sputnik; quindi, c’ero quando è partito lo spazio e devo dire che in questo mondo l’Italia ha una posizione di assoluto rilievo. Mi ricordo diverse chiacchierate in cui si parlava di soluzione all’italiana, che vuol dire una soluzione intelligente, non dispendiosa e vincente. Questo vuol dire che l’Italia si è conquistata un posto di rilievo, ma soprattutto si è conquistata la stima di quelli che ci fanno lavorare e con cui collaboriamo alle missioni spaziali. Abbiamo alle nostre spalle risultati eccezionali, soprattutto mi viene in mente la cupola, la finestra che abbiamo costruito per la Stazione spaziale internazionale, in cui l’Italia ha dato prova di essere veramente grandiosa.

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