Annamaria Raffo: “Vi racconto com’è tradurre Ken Follett, Dan Brown e Sophie Kinsella”

Sono giorni di lavoro intenso per Annamaria Raffo. Per le mani ha l’ultima fatica letteraria di Ken Follett, autore che traduce instancabilmente dagli anni Novanta. Il libro in questione è “Il cerchio dei giorni”, arriverà nelle librerie il prossimo settembre ed è uno dei romanzi più attesi dell’anno su scala mondiale. Non può dirci molto ma condensa tutto in una frase: “Un passato lontanissimo e molto attuale”. Stavolta Follett si avventura nell'esplorazione di uno dei più grandi misteri, quello che ruota attorno al circolo di pietra di Stonehenge, le cui origini sono avvolte nel mistero. “Lui riesce a portarci dentro la testa dei suoi personaggi, anche personaggi che vivono in secoli lontanissimi da noi. Ci fa capire che l'uomo è sempre stato così. L'uomo ha sempre gli stessi vizi, gli stessi punti deboli, gli stessi punti di forza. E poi ci sono i suoi fantastici personaggi femminili, donne forti e senza paura…” racconta. Ken Follett è una parte molto importante della carriera di Raffo che può dirsi specializzata nella traduzione dei più grandi bestselleristi britannici e americani: da Robert Harris fino a Sophie Kinsella. Ci ha raccontato il suo lavoro, le sfide che affronta quotidianamente di fronte ai testi che le vengono sottoposti e di quella volta che passò due mesi e mezzo a Barcellona segregata in una casa editrice per tradurre "Origin" di Dan Brown. Tradurre è sempre una grande responsabilità, qualunque cosa si traduca, ma come ci si sente quando si sta traducendo un testo che verrà letto letteralmente milioni di volte? Sì, è grande questa responsabilità effettivamente, perché sei il primo anello di una catena di professionisti e il successo di quel lavoro dipende anche da te. Io tendo a essere abbastanza fedele, molto fedele rispetto ad altri colleghi che si prendono delle libertà, cerco di seguire al massimo l'autore. Lei ha tradotto sia scrittori americani sia britannici. Quali sono le differenze? Penso a due autori che ho tradotto un po' di anni fa. Da un lato P. D. James, inglese, regina del giallo, con le sue tipicità britanniche: le lunghe descrizioni, l’indugio su certe situazioni, una certa rotondità nello scrivere, una scrittrice che ti catapulta in Inghilterra. E poi un altro autore che ho tradotto, stavolta americano, Robert Crais, che inventò due personaggi molto forti, due investigatori privati ben caratterizzati, stile cinematografico. Quando traducevo autori come questi era come tradurre due lingue differenti. Adesso si sente meno la diversità tra i due mondi. Si è perso un po' del tipico andamento lento inglese e si è persa, dall’altro lato, la velocità di azione americana. Diciamo che si converge verso un punto comune. Gli effetti della globalizzazione arrivano un po' ovunque, anche nella letteratura? Esattamente, trovo che gli autori siano meno connotati. Un tempo prendevi in mano un libro e dicevi: questo è americano e questo è inglese. Bastava leggere due righe. Come ha iniziato il suo percorso da traduttrice? Ho iniziato in una maniera per me molto divertente. Ho sempre amato i gialli, i Gialli Mondadori in particolare, li leggevo già da bambina perché li rubavo a mia mamma, che era una accanita lettrice. Prima di arrivare alla traduzione letteraria però lavoravo come interprete, ma più che altro ero interprete di trattativa e mi occupavo di export per alcune aziende. Poi sono entrata nell'Associazione italiana dei traduttori e interpreti, dove c'era una collega molto molto famosa che traduceva gialli ed era esperta di questo campo. Mi diede un contatto, feci una prova perché allora si poteva ancora fare così. La prima traduzione per la narrativa l'ho fatta nell'89. Era il genere che amavo. Ha cominciato come giallista e poi si è spostata sul thriller, che comunque ha degli elementi che spesso si mischiano al giallo. La suspense è dunque il filo rosso della sua carriera. Come è arrivata a Ken Follett? Ken Follett era seguito da una traduttrice che poi non ha più potuto continuare. E quindi sono subentrata io, perché probabilmente ero a portata di mano, conoscevano già come lavoravo e così nel ‘96 poi ho tradotto il mio primo Ken Follett, “Il terzo gemello”. Due anni dopo un altro suo romanzo e così via. Ken Follett in quel periodo faceva ancora dei libri stand alone, cioè libri autoconclusivi, non parti di storie più grandi, di serie, come potrebbe essere la saga de “I pilastri della Terra”. Qual è il segreto del successo di Follett? Follett è pop, molto accessibile a tutti. Uno dei suoi grandissimi talenti è quello di scrivere in una maniera che tutti possono apprezzare. Il lettore non si sente mai stupido con lui. Follett non fa mai il saccente: spiega, informa, racconta ed è un grande affabulatore. Io credo che il suo successo sia in parte dovuto a questa sua scrittura molto semplice. Non che questo sia semplice da tradurre, anzi. Bisogna rispettare questo stile cercando di mantenere un livello che sia gradevole al lettore: togliere piuttosto che aggiungere. Vedo dei colleghi che alzano tanto il livello dei testi perché a loro piacerebbe forse fare gli scrittori. Invece con lui bisogna fare diversamente: assecondarlo nella traduzione quando ha certe punte di lirismo oppure le volte in cui è brutale nelle descrizioni. Bisogna mettersi in ascolto senza prevaricare. Che rapporto ha con Ken Follett? L'ho conosciuto in due occasioni quando è stato qui in Italia per alcune interviste. L'ultima volta fece un intervento subito dopo la Brexit per spiegare che non tutta la Gran Bretagna voleva uscire dall’Ue. In queste rare occasioni in cui viene magari c'è il momento in cui ci si incontra, ci si saluta, però non ho rapporti personali. In genere, se ho qualche problema, qualche domanda, si passa attraverso la redazione. Ci sono autori che, invece, amano il contatto diretto con i traduttori. Ad esempio Robert Harris è molto ben disposto, pronto a collaborare. Ma c’è anche da dire che se Ken Follett dovesse rispondere ai dubbi di tutti i traduttori che ci sono, non finirebbe più. Ma prima di arrivare a Dan Brown e a Robert Harris, c’è stato qualcosa di molto diverso rispetto al filone dei thriller a sfondo storico e vaticaneggiante… Sono passata da Ken Follett a Kinsella, che ha rappresentato il mio momento di massimo divertimento. Secondo me non c'è una “giovane signora” di oggi sulla quarantina che non abbia letto Kinsella. Non definirei i libri firmati da Kinsella dei romance, anche se c'è un pochino di rosa dentro e ci sono certamente storie d'amore improbabili, un po' alla Bridget Jones. I suoi primi lavori sono tutti incentrati sullo shopping, sul restare a galla, resistere al lavoro, esserci, andare alle svendite, la smania di acquistare. Il segreto è che Rebecca rappresenta la classica casinista ed è stata, per questo, un personaggio davvero centrato. Rebecca è tutte noi, è la nostra eroina. Kinsella a parte, come traduttrice è specializzata nei thriller, come dicevamo, thriller di grandi bestselleristi internazionali. Ho tradotto Robert Harris. “Conclave” è stato un libro veramente speciale, perché ha spiegato come si svolge un conclave agli stranieri, sui quali l’elezione del Papa esercita un fascino enorme. Nel libro si respira una certa romanità. Harris è infatti stato - non so a quanti giorni - a Roma con un permesso speciale per entrare in Vaticano e per visitare di persona tutti i luoghi che poi vengono citati nel romanzo. Certamente però con quel finale lì… diciamo che si è probabilmente bruciato i rapporti con la Chiesa. Harris ad esempio è una persona molto disponibile, risponde sempre. A livello letterario è un po' sulla linea di Follett. Perché anche lui racconta le piccole storie, cioè le storie delle persone, sullo sfondo della grande Storia. Anche lui probabilmente ha risentito di una prospettiva di storico perché nasce come giornalista esperto in questioni storiche. E poi è diventato romanziere, uno scrittore che definirei molto raffinato. Ma non dimentichiamoci Dan Brown. Un pezzo da novanta. Ho iniziato con “Il simbolo perduto”, poi “Inferno” nel 2013. Sicuramente quando lui decide di smuovere le acque e intorbidarle ci riesce benissimo. Nelle sue trame non ci sono solo fatti, cose verosimili e provate, però nel raccontare è inarrivabile. Scrive costruendo delle cacce al tesoro che segui pagina dopo pagina. Il ritmo è sempre abbastanza serrato, perché in genere i suoi libri si svolgono in un giorno. Un giorno che dura 500-600 pagine. Eppure non perde mai l’attenzione del lettore. Lo ha conosciuto? Sì, è un tipo simpatico. C'è una cosa molto divertente che forse in pochi sanno: gli ultimi libri di Dan Brown sono stati tradotti in una modalità molto particolare. Non si è mai da soli a tradurre, ma segregati. Questa è buffa come storia: nel 2013 eravamo nella sede di Mondadori e c'era un certo numero di traduttori, tutti chiusi nella stessa stanza. I dattiloscritti non potevano uscire al di fuori di quelle mura, c'erano le guardie giurate e noi dovevamo entrare senza telefoni, senza niente. Lo stesso è successo a Barcellona nel 2017 per “Origin”. Certamente questo clima ha fatto crescere la curiosità attorno al romanzo, ma al di là delle trovate pubblicitarie lui è davvero ossessionato dal fatto che gli rubino l’idea e quindi costringe tutti i traduttori a riunirsi per lavorare. In quelle occasioni, come a Barcellona nel 2017, incontra i suoi traduttori per salutarli e conoscerli. Ci racconti meglio come andò a Barcellona. Era il 2017. “Origin” è ambientato in gran parte a Barcellona, quindi la casa editrice Planeta, che è stata quella che poi ha fatto uscire il libro in spagnolo, ha ospitato traduttori di tutto il mondo. Avevamo mezzo piano della casa editrice a nostra disposizione, chiusi dentro senza niente, giusto gli occhiali, e lavoravamo gomito a gomito. E lì è stato bello perché c'erano i francesi, gli spagnoli, persone che già avevamo conosciuto a Milano, ma anche polacchi, tedeschi e tanti nuovi colleghi. Insomma, tutti lì a Barcellona e tutti a lavorare sullo stesso libro. Fu un evento straordinario per noi che lavoriamo sempre in solitaria, chiusi nel nostro studiolo. Siamo stati là due mesi e mezzo, mi sembra. È stata un’occasione per capire come lavorano gli altri. Ad esempio i traduttori delle lingue neolatine sono molto più curati, sono molto più attenti al testo. E per questo eravamo più lenti. Stavamo lì a strapparci i capelli per una singola parola. “Ma vuol dire questo, ma guarda che non è così…” E naturalmente contestandoci tutto a vicenda, perché eravamo più traduttori per ogni lingua , quindi era come fare un compito in classe collettivamente. Devo dire grazie a Dan Brown, perché non mi era mai capitato e ci ha dato un’opportunità unica.

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Ludovica Passeri