La gabbia dei disturbi alimentari, Cristina: "Mi sentivo bloccata"

Cristina ha 28 anni, lavora come editor digitale e sogna di diventare una giornalista di cronaca nera. Ama i peluche, la danza classica e i colori. Per la maggior parte della sua vita ha abitato una stanza tutta nera con la sola compagnia dei disturbi alimentari. “Sono passata dall’Arfid da piccola [disturbo evitante restrittivo dell’assunzione di cibo ndr.], all’Anoressia, poi alla Bulimia, poi al Binge Eating [disturbo da alimentazione incontrollata ndr.]. In casa c’era un clima di violenza e la malattia era diventata una stampella per la mia sofferenza interna. Era il primo pensiero al risveglio e l’ultimo prima di andare a dormire. Senza di lei mi sentivo sola, senza di lei non sapevo stare nel dolore. Avere un disturbo alimentare è come essere rinchiusa in una gabbia di cui tu hai le chiavi ma non le trovi. Rimani bloccata lì dentro”. Cure forzate, morte e rinascita A 16 anni Cristina viene sottoposta a cure forzate. “Ho preso un po’ di peso ma la mia testa è rimasta uguale. A 20 anni mi sono trasferita a Roma dal Piemonte, ma mi sono subito resa conto che avevo bisogno di aiuto psicologico perché stavo tornando ad avere una serie di problemi. Sono andata da uno psichiatra molto bravo ma ogni due, tre mesi ricadevo nel disturbo. Fingevo di accettare l’aiuto, ma in qualche modo facevo sempre a modo mio e nessuno se ne accorgeva. Era la malattia a farmelo fare”. Come accade spesso a chi soffre di DCA, il senso di solitudine cresceva sempre di più. “Il disturbo era come la mia migliore amica, un mezzo di sfogo e una compagnia. I miei amici non capivano bene la situazione a casa e neanche perché mi comportassi in un certo modo. A 19 anni, un’amica mi venne a dire ‘Ma ormai sei grande, ancora con queste cose?'. Anche altre persone mi hanno detto cose simili nel tempo come ‘Sono passati tanti anni, ormai basta’, come se scegliessi io quando farla finire”. Cristina provava vergogna, senso di colpa, e poi sono arrivate le amnesie. “In quel periodo soffrivo di Binge Eating che molta gente scambia per il mangiare troppo ma non è così. Ho iniziato a non ricordare le abbuffate, era completamente fuori dal mio controllo e iniziavo ad avere diversi problemi fisici. Un giorno, una persona a me molto cara mi disse: ‘Ti voglio bene ma non riesco più a sostenere questa cosa. Se domani stessi ancora male e morissi?’. Mi ha fatto pensare. L'esito di un DCA non curato è la morte. Quando ho sentito queste parole mi sono messa a pensare. Voglio avere un futuro? Sì. Voglio avere un lavoro che mi piace? Sì. Voglio bene alle persone che ho intorno? Sì. Perché non provare, anche solo con un tentativo, a vedere che succede se seguo le cose che mi fanno bene?”. I primi passi sono partiti dalle cose più semplici: gli amici, gli affetti, i gatti, gli abbracci. “Io non chiedevo mai un abbraccio, non mi facevo abbracciare, odiavo che mi toccassero. Ho fatto un respiro profondo e ho detto ‘Vediamo cosa succede’. A 25 anni ho accettato le cure perché non volevo più ferire gli altri e non volevo neanche più ferire me”. La “forza di volontà” non c’entra “Chi soffre di un DCA è intrappolato in una spirale di sintomi che non è in grado di rompere con quella forza di volontà che la società si aspetta. I comportamenti disfunzionali, vale a dire le restrizioni, le abbuffate, le condotte di eliminazione del cibo, non sono scelte né capricci. Additarli come tali non fa che aumentare il senso di colpa e la vergogna nel paziente” afferma Sara Pottini, psicologa della rete DNA dell’USL 1 dell'Umbria e psicologa di Comestai, Centro DCA. I disturbi alimentari interessano in Italia oltre 3 milioni e 600 mila persone, come emerge dagli ultimi dati disponibili, aggiornati al 2022. Secondo la National Eating Disorders Association, queste patologie colpiscono circa 70 milioni di persone nel mondo e si stima che in media muoia una persona ogni ora per conseguenze dirette di un disturbo alimentare. Nel nostro Paese, l’istituto Auxologico di Milano parla di circa 4 mila morti ogni anno tra i giovani. “Quando Cristina ha pensato alla possibilità della morte, c’è stato un contatto con la realtà che, per una persona con DCA, è un concetto relativo” afferma Pottini. Davanti ai disturbi alimentari non esiste un “responsabile” o un’unica causa. Si tratta di patologie psichiatriche complesse e multifattoriali, che possono essere determinate da fattori biologici e genetici, fattori psicologici come bassa autostima, ansia, ossessioni, stress e infelicità; dinamiche familiari, fattori socio-culturali come la pressione sociale e mediatica verso la magrezza o determinati ideali estetici. Chi soffre di DCA si ancora al proprio sintomo come unico modo per esprimere la propria sofferenza. “Non possiamo parlare al paziente da fuori, dobbiamo entrare piano piano nella sua realtà per comprendere il significato dei sintomi. In quella gabbia possiamo stare vicino alla persona, non tanto per trovare la chiave, ma per iniziare a cercare insieme almeno la forma della porta” conclude Pottini. Tornare a vedere i colori Dopo una diagnosi in un centro per disturbi alimentari, Cristina ha iniziato un lungo percorso di cure che le ha permesso di ristabilire un rapporto più sano con il cibo e con se stessa. “Da un anno e mezzo sono stabile. Andare oltre l’abisso del disturbo alimentare ha significato scoprire chi sono. La malattia aveva messo in ombra tutto. Ho scoperto di essere estroversa, chiacchierona, che mi piacciono tante cose: dalla danza classica ai colori, come l’arancione, il marrone, il rosa, il turchese, il viola, mentre prima era tutto nero. La mia stanza era tutta nera”. Se ripensa alle scelte migliori della sua vita Cristina ne ricorda due. “La prima è stata liberarmi della situazione che mi ha fatto ammalare. Un 10 agosto ho preso mia madre e l’ho portata via di casa perché mio padre era violento. È stato poi condannato per maltrattamenti. La seconda è stata trasferirmi a Roma. Se fossi rimasta in Piemonte non sarei riuscita a guarire, avevo bisogno di persone nuove, di uno spazio nuovo che fosse accogliente. Oggi so chi sono, mi occupo di editing online e la mia vita ruota intorno alla sensibilizzazione e alla divulgazione. In futuro, sogno di diventare una giornalista e non voglio mai più tornare nella gabbia dei disturbi alimentari”.

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La gabbia dei disturbi alimentari, Cristina: "Mi sentivo bloccata"

Federica De Lillis