Vivere a lungo e bene? Questione di mindset

Uscire con gli amici, avere una vita sociale attiva, circondarsi di tante persone, fare un lavoro importante, fare attività fisica, mangiare sano. Anche grazie dei social siamo continuamente bombardati da impulsi a fare cose, frequentare persone e restare sempre "sul pezzo": tutto molto stimolante, ma cosa succede se poi sono stress e frenesia a prendere il sopravvento? Alla lunga, è la qualità della vita a risentirne. A fare la differenza sono le abitudini che adottiamo: il mindset, “quell'atteggiamento mentale che abbiamo nei confronti della vita, quel filtro che rende positive o negative le esperienze che viviamo”. A spiegarlo a Sky TG24 è Filippo Ongaro, medico, autore e pioniere della medicina preventiva che, dopo una carriera passata a curare astronauti, atleti e non solo, ha deciso di dedicarsi alla divulgazione e al coaching. “L’esperienza di aver lavorato con tanta gente a un certo punto mi ha fatto porre la domanda: ‘Cos’è che fa davvero la differenza quando incontri una persona che sembra soddisfatta e piena nella sua vita?’. La risposta è l’atteggiamento”. Nel suo ultimo libro “Il mindset della longevità” parla proprio di questo: non solo vivere a lungo, ma anche vivere bene. “A tutti coloro che desiderano una vita lunga, ma soprattutto piena”. Questa è la dedica del suo libro: che differenza c’è tra vita lunga e piena? “La differenza è proprio a livello percettivo, psico-emotivo, individuale e soggettivo. Io posso vivere molti anni ma non viverli in una condizione di felicità, soddisfazione, emozioni e relazioni positive; oppure il contrario. Io credo che la maggior parte di noi in realtà desidera soprattutto questo: non è tanto la durata in sé che definisce il giudizio che poi noi diamo sulla qualità di questa esistenza”. Anche se a volte forse siamo più preoccupati dalla quantità che dalla qualità delle cose che facciamo nella nostra vita… “Forse anche perché è più difficile. Adottare quelle norme di base che in teoria dovrebbero aiutarci ad allungare la vita è più facile che fare un lavoro introspettivo per capire cosa ci piace sul serio e cosa ci emoziona positivamente. Molta dell’ossessione del vivere più a lungo che caratterizza la nostra società è perché noi tipicamente procrastiniamo la felicità, continuiamo a dirci che saremo felici quando avremo raggiunto determinati obiettivi ma intanto gli anni passano”. A tal proposito, la prima riga del libro è molto forte: “Voglio chiarire subito una cosa: io sto morendo”. “Questa è una caratteristica della società moderna: dare un po’ per scontata la vita e accorgersi di quanto preziosa e delicata sia soltanto quando ci sono dei momenti che ci toccano in negativo. Bisognerebbe tornare a coltivare un po’ questa concezione che la vita è un dono, non c’è nulla sicuro. Quando ci comportiamo come se la vita fosse scontata e noi fossimo eterni, ecco che la qualità diventa molto più bassa”. Ormai conduciamo vite frenetiche, siamo bombardati da stimoli sui social, spinti a non doverci mai perdere nulla. Questo come impatta sulla qualità della vita? “Sicuramente impatta soprattutto quando queste cose non sono davvero quelle che abbiamo scelto, che ci danno una grande soddisfazione e che ci fanno crescere. Pensiamo alla FOMO generata dai social: ma paura di perdere cosa? Niente. Lì ci vuole forza di carattere per stare fuori da questi meccanismi e crearsi una realtà che sia a misura di ciò che davvero piace”. Quali sono i punti fondamentali per una vita di qualità? “La gestione del tempo è uno dei più importanti. E come lo gestiamo in questo caos di social, informazione e intelligenza artificiale è un tema complesso. Poi coltivare relazioni e percepire le cose che abbiamo in maniera più intensa di quelle che ci mancano. La vita di ognuno di noi è rappresentata dalle cose su cui ci concentriamo: basterebbe saper dirigere la nostra attenzione sulle cose più giuste per vivere un po’ meglio”. Quindi diciamo che “consapevolezza” potrebbe essere la parola chiave… “Assolutamente. La consapevolezza è una di quelle cose che difficilmente emergono nella totale frenesia. Importante, per esempio, è avere l’occasione di soffermarsi un attimo e pensare: oggi quando vedi persone in coda da qualche parte non c’è nessuno che pensa, sono tutti con il telefono in mano. La chiave quindi sì, è essere più consapevoli: se non lo sei fai fatica a capire, a conoscere te stesso e a fare le scelte che ti portano a un grado più alto di soddisfazione e felicità”. Qua entra in gioco la pratica della mindfulness, diventata nota da relativamente poco tempo anche sui social. È una moda o è davvero utile? “Facciamo un passo indietro. La meditazione ha una storia molto antica ed è sempre stata vista con scetticismo dall’occidente e dal mondo accademico. Fino agli anni ‘90, quando un ricercatore americano, Jon Kabat-Zinn, introdusse la pratica della Mindfulness-Based Stress Reduction . Ma mindfulness vuol dire consapevolezza e tutte le pratiche meditative, contemplative e addirittura religiose sono delle pratiche di consapevolezza. Quindi in sé il termine non è corretto perché non c’è UNA mindfulness, c’è la meditazione che stimola la mindfulness ossia la consapevolezza. Dagli anni ’90 sono cambiate molte cose… “Sono stati pubblicati tantissimi lavori e la pratica è del tutto sdoganata sul piano scientifico: le pratiche meditative creano delle variazioni nelle onde cerebrali che portano il cervello verso uno stato di calma profonda. Quindi indubbiamente sono utili, ma qual è il problema? Il problema, prima di tutto, è che non c’è solo quello: la meditazione è una porta, ma se questa porta non la usi per capirti meglio e riflettere su quello che percepisci diventa un esercizio fine a sé stesso. L’altro problema arriva quando la meditazione viene popolarizzata come una cosa che risolve ogni problema in una seduta. C’è questa cultura del volere tutto subito che cozza con queste metodiche: la meditazione è una cosa complessa, non può fare miracoli ma se approcciata in maniera giusta può sicuramente essere un primo passo verso un grado più alto di consapevolezza”. A tutto questo si associano allenamento e cibo sano. Questi due aspetti, per come ci vengono narrati dai social, non rischiano di trasformarsi in ossessione? “Il punto centrale è che se tutto questo viene fatto con forte carica di pressione e bassa gratificazione, rischia di funzionare per un tempo molto limitato e di diventare un fattore di stress aggiuntivo. Il processo dovrebbe essere calibrato a piccoli passi in modo da garantire un forte senso di gratificazione alla persona: non deve essere fatto per senso del dovere, disciplina o perché lo dice qualcuno ma solo perché ti fa sentire meglio. E il ‘dosaggio’ per sentirsi bene è soggettivo”. Abbiamo parlato del lavoro su sé stessi: e per quanto riguarda invece le relazioni con gli altri? “Molti studi confermano che la qualità delle nostre relazioni sociali è uno dei fattori più forti per determinare la qualità della vita di una persona.E non si parla solo di fattori psichici ma anche organici perché le relazioni hanno un impatto diretto sulla salute delle persone. Per avere relazioni sane bisogna diventare capaci di costruirle e sceglierle: non è una cosa che io posso subire. Tanti finiscono con l’avere delle relazioni non soddisfacenti o addirittura tossiche, dannose, proprio perché non si conoscono abbastanza, non si fanno domande, non hanno un livello di autostima sufficiente e finiscono per accettare compromessi per paura della solitudine” C’è un’età per iniziare a mettere in pratica tutte queste cose? “La risposta ovvia è che non è mai troppo tardi; quella meno ovvia è che non è neanche mai troppo presto. Per sviluppare non solo salute ma anche quell’atteggiamento nei confronti della vita che porta a un’esistenza piena prima cominciamo meglio è”.

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Claudia Torrisi