Combattere il dolore, una battaglia anche culturale

“Non sconfiggeremo mai il dolore ma riusciremo a ridare qualità della vita a chi non ne ha.” Parola di Diego Fornasari, direttore della scuola di specializzazione in farmacologia e tossicologia clinica dell'Università di Milano e presidente dell'Associazione italiana studio del dolore che in questa intervista a Sky TG24 commenta le ultime ricerche, specie sui nuovi farmaci antidolorifici non oppioidi. Combattere il dolore è però anche una questione culturale. Un tema particolarmente sentito nel nostro Paese che resta una della nazioni europee dove gli oppioidi sono meno utilizzati. Questo nonostante una legge molto innovativa che risale ormai a 15 anni fa. “Una bella incompiuta” – dice Fornasari - ma anche qui le cose stanno cambiando”. Professore partiamo da una notizia che arriva dagli Stati Uniti e che ha creato una certa eco anche dalle nostre parti: la nascita di un antidolorifico che ha come principio attivo, la suzetrigina. Si tratta del primo nuovo farmaco contro il dolore da diversi anni, soprattutto non basato su oppiacei. E’ davvero una rivoluzione? Tutti noi che ci occupiamo di dolore, siamo molto felici di avere un nuovo farmaco. In realtà nel 2020 era stato registrato, sempre negli Stati Uniti, un nuovo oppioide per il trattamento del dolore post-operatorio. Quindi qualche cosa si era fatto su quel versante, ma la suzetrigina è una molecola alternativa per certi aspetti agli oppiacei e quindi sicuramente desta interesse. Come funziona ? Sostanzialmente funziona inibendo l'attività di un canale del sodio che è quella porta attraverso la quale le cellule nervose, si eccitano. Quindi più questi canali sono attivi e più il neurone è attivo. Ebbene la suzetrigina blocca, nelle fibre nocicettive, uno di questi canali che è estremamente importante per la conduzione del dolore. Dal punto di vista del bersaglio molecolare non è una cosa nuova, perché in realtà la suzetrigina inibisce dei canali che sono normalmente inibiti dagli anestetici locali, a partire dalla lidocaina. Qual è la differenza? Fondamentalmente gli anestetici locali inibiscono molti canali del sodio contemporaneamente, quindi hanno un profilo di sicurezza ridotto, perché questi canali sono presenti anche nel cuore, quindi il rischio è naturalmente di effetti avversi a livello cardiaco. Il nuovo farmaco è molto selettivo e di conseguenza ci fa risparmiare in termini di potenziali effetti avversi. Non è una cosa innovativa rispetto al bersaglio, perché le cose veramente innovative sono quelle che funzionano da un punto di vista farmacologico su nuovi bersagli molecolari. Purtroppo su questo stiamo un po’ a rilento nella ricerca, quindi questa è un’innovazione ma non una rivoluzione. Fra l’altro questo farmaco è stato registrato per il dolore post operatorio acuto, mentre il vero grosso problema è il dolore cronico, con particolare riferimento a quello neuropatico. Ovviamente funziona ed ha il vantaggio di poter essere somministrato per via orale e questa è un'altra importante innovazione che ci portiamo, perché il paziente può andare a casa dopo l'intervento e può proseguire la terapia analgesica utilizzando dei farmaci comunque importanti sul dolore, semplicemente con una somministrazione orale. L'attesa è però sull’efficacia di questo farmaco rispetto al dolore neuropatico. Ci sono già degli studi, i primi sulla lombosciatalgia non hanno dato risultati positivi, mentre si intravede qualche cosa nella neuropatia diabetica dolorosa, dove però diciamo funziona come gli altri farmaci. Perché gli oppiodi funzionano così bene col dolore e perché possano dare dipendenza? I farmaci, in generale, funzionano nel nostro organismo non perché creino delle funzioni diverse, ma semplicemente perché interferiscono con funzioni preesistenti. Noi abbiamo uno sviluppatissimo sistema oppioide endogeno che è preposto a molteplici funzioni. Una di queste è il controllo del dolore, perché la natura o il Padre Eterno ci hanno dotato di un sistema interno che evita che il dolore, che ci deve proteggere, ci possa danneggiare. Questo è il motivo per cui noi abbiamo un sistema nocicettivo il quale o si ammala lui, come nel dolore neuropatico, oppure registra una situazione patologica come nel dolore infiammatorio. Il sistema oppioide e un controllore che tende appunto ad inibire la trasmissione del dolore, perché il dolore non ci deve uccidere, ma deve semplicemente allertarci. Ovviamente il dolore quando diventa una cosa patologica come nel dolore infiammatorio, in quello neuropatico o nel dolore nociplastico della fibromialgia, è senza utilità e distrugge la nostra qualità della vita. Il sistema oppioide endogeno non ce la fa più a controllare questa situazione, ma se noi introduciamo degli oppiacei, stimoliamo nuovamente e potentemente il sistema e otteniamo analgesia, ossia l’insensibilità al dolore, che si realizza in tanti punti ma soprattutto nel midollo spinale. Qual è il rovescio della medaglia? Il rovescio della medaglia è che Il sistema oppioide è localizzato nel cosiddetto centro della gratificazione. Noi tutte le volte che mangiamo o abbiamo un rapporto sessuale, quando cresciamo i figli, cioè tutte quelle volte che abbiamo esperienze per garantire la sopravvivenza nostra o della specie, attiviamo il sistema oppioide in questo centro della gratificazione. E’ chiaro che se noi utilizziamo degli oppiacei “esterni”, questi vanno ad impattare su questo centro del piacere. Lo dico sottovoce e tra virgolette: purtroppo all’inizio drogarsi è bello, perché c’è una stimolazione potentissima sul centro della gratificazione. Però nel tempo, ovviamente, questa stimolazione viene completamente alterata dalla sostanza d'abuso finendo per diventarne dipendenti. Quindi non assumiamo più la sostanza d'abuso per ottenere piacere, ma per cancellare il dolore dell'assenza della sostanza e poi la storia diventa tristissima. Quindi da un lato curiamo il dolore dall'altro lato, invece abbiamo questa importante impatto. Però una cosa che mi preme proprio sottolineare è che questi due mondi non è che siano proprio esattamente coincidenti. Il paziente con dolore cronico che assume degli oppiacei, in un contesto terapeutico non diventa facilmente dipendente. Oggi noi stimiamo più o meno che un paziente che assuma oppiacei per periodi lunghi per il trattamento del dolore cronico o quello oncologico abbia un rischio del 5-10% di sviluppare una dipendenza che però è intercettata e quindi controllata. Insomma c’è differenza tra un’assunzione di Fentanyl sotto controllo medico e preso in mezzo alla strada. In questo secondo caso il 100%, anzi il 110%, diventa dipendente. Purtroppo il Fentanyl poi è particolarmente insidioso da questo punto di vista. Negli Stati Uniti non hanno un sistema pubblico come il nostro, con medici di medicina generale che seguono il paziente e centri per il trattamento della tossicodipendenza. I tossicodipendenti sono dei malati che in Italia hanno la possibilità, se lo desiderano, di accedere ai SerT, cioè i servizi territoriali per le tossicodipendenze. Adesso la dico un po’ come battuta ma negli Stati Uniti ci sono stati i nipoti tossicodipendenti che hanno sottratto l'ossicodone ai nonni che ne facevano uso e ai quali veniva prescritto con con tanta leggerezza, anche sotto la pressione di aziende interessate. Lì è saltato il sistema, da noi il sistema è molto improbabile che salti. La medicina del dolore, io dico sempre, è una “Slow medicine”, cioè non è una medicina che io ti do il farmaco e arrivederci e grazie. Anche nel trattamento del dolore post operatorio, laddove spesso gli oppiacei sono insostituibili, ci deve essere sempre il controllo. Quali sono i segnali che qualcosa non va, che si sta sviluppando una dipendenza? Se il paziente ha degli atteggiamenti diciamo un po’ particolari dice: “il dolore non mi è passato, mi prescrive un'altra scatola” ecco questa è una della red flag per cui ovviamente si sta molto attenti. Ci sono anche fattori di rischio: la giovane età, ad esempio, per questo i più giovani devono essere monitorati meglio degli anziani. Anche perché gli anziani non diventano tossicodipendenti, è praticamente impossibile che un ottantenne sviluppi una dipendenza di questo tipo. Altri fattori di rischio sono naturalmente le tossicodipendenze preesistenti, ad esempio se un soggetto è stato dipendente dalla marijuana vent'anni prima. Mi riferisco anche ai tabagisti, a quelli che fumano due pacchetti di sigarette al giorno perché hanno comunque una dipendenza e la dipendenza da nicotina è una fior fiore di dipendenza. Monitoriamo poi attentamente i pazienti con malattie psichiatriche che hanno una maggiore predisposizione. In sintesi, sappiamo chi è che rischia e quindi viene monitorato. Poi se per caso dovesse succedere qualche cosa di storto ci sono i SerT che accolgono questi pazienti e li aiutano ad uscire dalla tossicodipendenza. Nonostante questa rete di sicurezza l’Italia è fra gli ultimi posti in Europa per prescrizioni di oppioidi. Inoltre si ha un po’ la sensazione che i medici siano sempre piuttosto restii a prescrivere questo tipo di antidolorifici. E’ davvero così ? Le cose sono un po' migliorate esattamente dal 15 di marzo del 2010 quando è stata approvata la Legge 38/2010. Si tratta di una norma all'avanguardia nel mondo, che garantisce ai cittadini italiani il diritto all'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Questa legge è stata votata durante il secondo governo Berlusconi all'unanimità e questo perché è una legge di grande civiltà che stabilisce alcune cose. Per esempio che il dolore è il quinto parametro vitale e quindi va continuamente monitorato, che i pazienti non devono soffrire sia in caso di dolore acuto che cronico. Stabilisce poi la creazione di reti in maniera tale che la terapia del dolore o le cure palliative siano un percorso nel quale il cittadino viene accompagnato. Certo le cose sono migliorate ma non come ci si aspettava, perché in realtà la Legge 38/2010, come spesso si dice, è una bella incompiuta. Si devono vincere certe resistenze, anche quelle dei parenti di un malato che appena sentono la parola “morfina” pensano che uno stia morendo mentre la morfina e tutti gli oppiacei vengono sì utilizzati nelle cure palliative ma nella maggior parte dei casi il dolore cronico è un dolore non oncologico. Pensi che un tempo stupidamente lo chiamavamo “dolore benigno” ma il dolore non è mai benigno perché distrugge la qualità della vita. Io credo che nei centri di terapia del dolore gli oppiacei vengano utilizzati in maniera corretta. Ciò detto non è che tutti i pazienti abbiano bisogno di oppiacei ma quando ci servono devono essere utilizzati, prescritti e il paziente deve essere seguito, non deve essere abbandonato. Sono farmaci insostituibili, il Fentanyl, del quale oggi parliamo tanto, è considerato uno dei farmaci salvavita dell'Organizzazione mondiale della sanità. Non toccatecelo perché ci serve per trattare il dolore soprattutto nel paziente oncologico ma anche nel paziente non oncologico. C’è quindi in qualche modo un aspetto culturale nel nostro Paese? Diciamo che da noi esiste anche un background culturale per il quale il dolore in realtà si deve sopportare. Insomma si pensa: “se abbiamo il dolore un motivo ci sarà?” Anche alcuni medici ospedalieri trent'anni fa dicevano: non mi toccare il dolore che mi serve per fare diagnosi. Come se ci servisse il dolore dell'appendicite per sapere che quel paziente li deve essere operato. Devo dire che negli ultimi decenni, la Chiesa cattolica ha fatto dei passi veramente importanti proprio per quanto riguarda appunto il fatto che i pazienti non devono essere lasciati nel dolore. Però questa cultura esiste. Pensiamo per esempio alla fibromialgia, stiamo iniziando a parlarne solo ora e con molta fatica anche a livello istituzionale. Ci sono stati degli audit in Parlamento, alla Commissione sanità, perché il paziente fibromialgico, ha una qualità della vita infima, con un dolore che spesso viene anche nascosto dalle famiglie stesse che hanno paura che il loro caro sia scambiato per matto. Quindi è una cultura, diciamo sociale, ma anche medica, clinica che piano piano si sta smuovendo. Professore, in conclusione, quali saranno gli antidolorifici del futuro? Allora diciamo che la terapia del dolore non è soltanto farmaci, ma sono anche, da un lato, tecniche interventistiche e poi trattamenti non farmacologici. Dicevo prima della fibromialgia di cui abbiamo poche evidenze scientifiche e cliniche, ma un'evidenza ce l'abbiamo: una delle cose migliori che il paziente fibromialgico può fare per se stesso e fare attività fisica aerobica. Questo vuol dire che in futuro, se questo è importante, la nostra modalità di comunicazione con il paziente deve cambiare, perché il paziente deve essere convinto da noi e fidarsi di noi, che magari certe volte un intervento non farmacologico è un intervento importante. Se restiamo nell'ambito del farmacologico ci sono una serie di bersagli molecolari importanti per il dolore cronico che oggi non hanno farmaci e io credo che le più grandi multinazionali del farmaco stiano tutte lavorando su queste molecole. Ma non si tratta solo di nuovi farmaci, perché ci sono vecchi principi attivi che potrebbero essere utilizzati meglio nel trattamento del dolore. È quel fenomeno che noi chiamiamo repurposing, cioè riposizionare un farmaco vecchio. Anche da qui verranno delle cose interessanti. E poi ci sono naturalmente le tecniche invasive, tutta la neuromodulazione, la stimolazione intracranica profonda, nuove tecnologie che si stanno affermando, fino alle tecniche magari più semplici e mininvasive che non dovrebbero essere utilizzate alla fine, quando cioè non c'è più niente da fare, ma precocemente per dare qualità della vita e magari risparmiarsi il farmaco oppiaceo. Io sono molto fiducioso. Credo che nei prossimi 10-15 anni questa guerra contro il dolore non dico che sarà vinta, perché le guerre di questo tipo non si vincono, ma penso che vinceremo numerose di battaglie in questo ambito. Quindi sono assolutamente fiducioso e ho un'idea ben in testa: forse non riusciremo a togliere tutto il dolore che ha ad un paziente che soffre molto ma riusciremo ad abbassarlo ad un livello tale che la sua qualità della vita gli sia restituita. Perché la medicina del dolore non è che toglie il dolore ma come diceva Rita Levi Montalcini vuole aggiungere vita agli anni più che anni alla vita. Credo che ce la faremo.

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