Malattia in Congo, Rezza: "Massima attenzione, ma nessun allarme"

Il bilancio dei contagi e delle vittime della malattia in Congo, di cui al momento non si conoscono né le cause né l’origine e né le modalità di trasmissione, potrebbe essere non solo impreciso ma anche fuorviante. Quello che si sa, ad oggi, è che le persone contagiate hanno manifestato febbre, mal di testa, tosse, congestione nasale, ma anche anemia, difficoltà respiratorie e affaticamento muscolare. L’unica certezza è che le aree colpite, sette su trenta del distretto sanitario di Panzi, si trovano a quasi 760 chilometri a sud est di Kinshasa. Si tratta di un’area isolata della provincia di Kwango con particolari difficoltà di accesso e strutture sanitarie quasi inesistenti, con un tasso di malnutrizione al 61% tra i più alti del Paese. Nelle zone dove sono stati registrati casi, il primo il 24 ottobre scorso, e i decessi, prevalentemente tra i bambini, acqua potabile e medicinali scarseggiano. Giovanni Rezza è professore di Igiene e Sanità Pubblica presso l’Università Vita- Salute San Raffaele di Milano, ex Direttore Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute e dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità. Professore al momento la situazione è ancora molto incerta. Lei, che è in contatto diretto con gli esperti dell’Oms, che idea si è fatto? Dobbiamo avere molti punti di domanda. Potrebbe essere qualcosa di nuovo, un virus che non conosciamo, ma potrebbe trattarsi anche di uno dei tanti episodi che purtroppo nelle zone remote dell’Africa sono abbastanza frequenti. Lo abbiamo visto già in Congo e nei Paesi limitrofi, laddove spesso si formano focolai epidemici caratterizzati da alta mortalità, come le febbri emorragiche, che restano in genere confinati nelle aree colpite. Oltretutto le autorità sanitarie congolesi hanno una grande esperienza di febbri emorragiche, sono abituati a gestire focolai epidemici e sanno come circoscriverli, operando dei veri e propri cordoni sanitari. In questo caso, quello che differisce rispetto a quanto avviene con le febbri emorragiche, che si trasmettono con contatto diretto, sebbene in questo caso non conosciamo ancora la modalità di trasmissione, sono i sintomi che ricordano quelli di una malattia respiratoria. Porrebbe quindi trasmettersi per via aerea anche se è presto per dirlo. Se l’ipotesi dell’agente patogeno respiratorio dovesse essere confermata, la situazione sarebbe più preoccupante? Sì, perché la modalità di trasmissione respiratoria o area è più elevata di quella con contatto diretto. Ad esempio, Covid o influenza corrono più rapidamente di ebola o HIV in un contesto che non sia quello africano. C’è possibilità che si tratti di un batterio? Potrebbe essere sia un virus che un batterio già noto, come ad esempio un micoplasma. In questo caso l’anemia sarebbe spiegata anche dalla malnutrizione e dalla presenza di febbri malariche e il tasso di letalità, che sembrerebbe sceso a poco più del 7%, potrebbe essere spiegato dalle condizioni di base dei bambini affetti. Il fatto che vengano colpiti in particolar modo i bambini a cosa fa pensare? La maggiore suscettibilità dei più piccoli potrebbe essere dovuta al fatto che gli anziani sono più protetti perché già venuti a contatto con l’agente infettivo, che sia un batterio o un virus. Può però fare pensare anche al fatto che, in quelle aree, i bambini sono particolarmente fragili perché malnutriti e debilitati da altre parassitosi. È possibile che nel focolaio ci siano invece un insieme di patologie? È possibile, ma sembra più probabile che ci sia un solo agente infettivo che ha generato questo cluster. Per mobilitare l’Oms è evidente che la situazione, a livello locale, è anomala. Come dicevo, sono Paesi abituati a gestire questo tipo di emergenze. Dal Congo è arrivata l’Ebola e il Paese è impegnato a gestire una epidemia di Mpox, il vaiolo delle scimmie, con 48 mila casi e 1,200 decessi segnalati. Si tratta di un grande Paese con grandi problemi. Quindi è logico che si creino delle situazioni di emergenza sanitaria. Il vaiolo delle scimmie è presente in Congo da quando è stata interrotta la vaccinazione contro il vaiolo umano alla fine degli anni ’70. Ebola, essendo presenti serbatoi animali, ha causato molte epidemie anche nei Paesi limitrofi. Grand parte del Paese è foresta pluviale, quindi i serbatoi animali sono molti e le strutture sanitarie sono deficitarie. Circolano con difficoltà anche i campioni e quindi tutto va a rilento. Quali sono le raccomandazioni per la popolazione? Io credo che nelle zone colpite sia stato creato un cordone sanitario in modo da rendere difficile l’accesso per eventuali viaggiatori. Il focolaio dovrebbe essere stato circoscritto Al momento in Italia la sorveglianza è attiva. Il Ministero ha chiesto in via cautelativa agli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera, di fare attenzione su tutti i punti di ingresso, in particolare sui voli che arrivano dal Congo. Il Covid però ci ha insegnato che i virus non conoscono confini. È sufficiente per ora? Al momento è l’unica cosa che si può fare. Non c’è una allerta globale e non si hanno altre informazioni. Quindi per ora non si può fare altro che sconsigliare i viaggi nella zona colpita e monitorare i viaggiatori in arrivo dal aese. Quando sapremo qualcosa di più? Dipende. Se si tratta di un virus o un batterio noti potrebbe essere questione di ore dopo l’arrivo dei campioni a Kinshasa, quindi già entro la giornata. Se invece si trattasse di qualcosa di diverso, potrebbero volerci giorni e la necessità di laboratori altamente specializzati. In questo caso i campioni potrebbero essere portati all’estero, anche in America. Però questo è lo scenario più remoto. C’è una situazione di allarme? C’è una situazione di attenzione e forte preoccupazione per la zona colpita, ma non c’è una situazione di allarme perché non sappiamo ancora se ci troviamo difronte a qualcosa di nuovo o a uno dei tanti eventi tragici ma circoscritti che si verificano in Africa.

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