In Evidenza
Altre sezioni
altro

Viaggio nei disturbi alimentari, l'esperta e le pazienti raccontano un dolore moderno

Salute e Benessere

Giulia Mengolini

In Italia soffrono di DCA oltre 3 milioni di persone, con un incremento esponenziale post pandemia: il 30% ha meno di 14 anni, e i casi tra i maschi sono aumentati dal 1% al 20%. A Todi nella residenza pubblica di Palazzo Francisci le pazienti vengono curate con un approccio integrato tra corpo e mente, perché l'ossessione per il cibo, spiega la direttrice Laura Dalla Ragione, "nasconde dolori profondi". Le storie di due ragazze che hanno finalmente voglia di tornare a vivere

Il tuo browser non supporta HTML5

Condividi:

Sono 3 milioni e 200mila le persone che nel nostro Paese soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Un dato - rilevato dal ministero della Salute - ancora più allarmante se si pensa che è fortemente sottostimato, perché sono moltissime quelle invisibili, che non chiedono aiuto. Un’epidemia scoppiata in Italia tra la fine degli Anni ’90 e i Duemila, che ha visto un’importantissima accelerazione con l’arrivo di un’altra pandemia, quella da coronavirus, vent’anni dopo. A raccontare il fenomeno a Sky TG24 è Laura Dalla Ragione, psichiatra e psicoterapeuta che ha fondato e dirige la Rete per i Disturbi del Comportamento Alimentare della USL 1 dell’Umbria. Il suo lavoro parte da un presupposto fondamentale: i DCA non sono solo malattie del corpo, ma anche, e soprattutto, dell’anima.
“Il cibo diventa un simbolo della difficoltà di abitare il mondo, di essere amati, di desiderare l’approvazione degli altri”, spiega. “La ricerca della perfezione fisica, così come gli eccessi legati al cibo, non sono altro che una forma di controllo. Come se attraverso la manipolazione del corpo si potesse ottenere un’approvazione maggiore da parte del mondo. Disturbi come l’anoressia e la bulimia sono dolori profondi dell’anima, depressioni moderne”.

Il 30% è under 14, forte aumento tra i maschi: i nuovi pazienti

A partire dal 2020, in concomitanza con l’inizio della pandemia, la popolazione che soffre di DCA è cambiata, e l’età di esordio si è abbassata considerevolmente, spiega l’esperta in occasione della Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla: “Oggi il 30% ha meno di 14 anni, e questo è un dato nuovo. Curiamo anche bambine di 11 o 12 anni, quindi in fase infantile o preadolescenziale”. L’altro aspetto nuovo del fenomeno riguarda i maschi che si ammalano: “L’aumento che li riguarda è esponenziale. Fino a cinque anni fa erano solo l’1% mentre attualmente sono il 20% nella fascia 12-17 anni”. I ragazzi sono ancora più difficili da intercettare e curare, perché chiedono aiuto con maggiore difficoltà, spiega Dalla Ragione. “L’anoressia e la bulimia sono sempre state considerate ‘malattie da femmine’. Ma questi numeri ci dicono che tra dieci anni non saranno più ‘disturbi di genere’”.

Gli effetti della pandemia: migliaia di nuove diagnosi

Gli effetti della pandemia hanno inciso moltissimo soprattutto nella fascia preadolescenziale. Le origini post traumatiche dei DCA sono infatti ampiamente dimostrate, dice l’esperta, “e posso affermare che tutte le pazienti che abbiamo visto finora tra il 2022 e il 2023 ci hanno detto che tutto è precipitato nel 2020. Oggi assistiamo quindi a questa onda lunga di casi che si sono manifestati in quel periodo, o che in quella fase hanno affrontato delle ricadute”. Con il lockdown, i ragazzi e le ragazze sono stati privati dalla sfera della socialità negata a 360 gradi, dalla scuola allo sport. A questo si è aggiunta la dimensione della solitudine, insieme a quella claustrofobica familiare. “Sono infatti aumentati anche altri fenomeni, dall’autolesionismo ai suicidi, e ne stiamo vedendo gli effetti ora. Un altro aspetto è quello dell’uso e abuso dei social, acutizzato dalla pandemia”. Un tema che Dalla Ragione affronta nel libro “Social fame”, nella doppia accezione di “fame di cibo” e “fama”, in uscita con Pensiero scientifico editore.

La psichiatra Laura Dalla Ragione.

Curare il corpo e la mente: l’importanza di un approccio integrato

Dai disturbi alimentari si può guarire. Perché succeda è però indispensabile curarsi. “A volte i genitori dei ragazzi dicono magari passa da solo”, racconta la psichiatra, “ma non è così, anzi: il rischio reale è che si aggravi”. Per questo è fondamentale che i genitori che avvertono i primi campanelli d’allarme nei propri figli - riduzione del cibo, intensa attività fisica, andare spesso in bagno dopo i pasti oltre a un cambiamento caratteriale - insistano per portare la figlia o il figlio in un centro specializzato il prima possibile. “Questa malattia ha bisogno di un approccio integrato che la aggredisca da ambedue i lati: la mente e il corpo. Quindi non è sufficiente un supporto psicologico, come non funziona da solo un percorso nutrizionale”. Per chiedere aiuto, un primo passo può essere rivolgersi al numero verde nazionale “SOS disturbi alimentari” (800.180.969) dove rispondono operatori specializzati. Il secondo è rivolgersi a dei centri specializzati.

Palazzo Francisci, luogo (anche) dell’anima

Esistono diversi tipi di percorsi di cura a seconda della gravità dei casi. “Se si intercetta un DCA all’inizio può essere sufficiente anche solo un trattamento ambulatoriale, ma specializzato”, dice l’esperta. “Altri casi richiedono la necessità di un trattamento semi-residenziale, mentre nel 30% dei casi serve un trattamento residenziale. Una full immersion che dura dai tre ai cinque mesi con un programma a 360 gradi dove si fa un lavoro intensivo sulla mente e sul corpo con l’aiuto di psicologi, nutrizionisti, infermieri, educatori, fisioterapisti, persino filosofi. Diversi approcci per curare il rapporto corpo mente che si è incrinato”. E’ questa la missione di Palazzo Francisci, una struttura che si trova all’interno di un antico palazzo di Todi circondato dal verde, dove il progetto di Dalla Ragione è nato dalla volontà di costruire uno spazio di cura diverso da quello dell’ospedale.

approfondimento

Disturbi alimentari: in primi 6 mesi pandemia casi aumentati del 40%

Palazzo Francisci a Todi.

Un buco nella rete di assistenza per la cura

In tutta l’Umbria c’è una rete diffusa di assistenza interamente pubblica. “Noi siamo stati la prima struttura pubblica italiana extraospedaliera che ha messo in piedi una rete complessa nel 2003, periodo in cui più o meno in Italia è esplosa l’epidemia di DCA”, spiega la psichiatra. “Fino agli Anni 90 in Italia contavamo circa 300mila casi, prima di uno sviluppo esponenziale pazzesco che ha trovato impreparata la sanità, sia pubblica che privata”. E oggi? “In Italia l’assistenza è a macchia di leopardo, metà delle regioni non ha una rete completa, da Nord a Sud diverse regioni hanno difficoltà, dalla Lombardia alla Calabria”. Manca una rete uniforme: “Questo implica che i pazienti e le loro famiglie siano costretti spesso a intraprendere dei viaggi della speranza. Noi a Palazzo Francisci accogliamo persone da tutta Italia, ma è assurdo che una persona per curarsi debba venire a Todi dalla Sicilia”. Per i genitori che vanno a trovare le figlie, è uno stress ulteriore.
Oggi sono 126 le strutture dedicate alla cura dei DCA sparse sul territorio nazionale, di cui 112 pubbliche e 14 di privato accreditato e la metà, 63, si trova al Nord. A pubblicare la mappatura è il Centro nazionale dipendenze e doping dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss).

 

Diagnosi correlate a DCA: 3260 decessi nel 2022

C’è un altro dato da considerare: quello dei decessi. “Nel 2022 sono morte 3260 persone con diagnosi correlate ai disturbi alimentari, dovute a complicanze, ma anche al suicidio (chi soffre di DCA ha sei volte più rischio di suicidio di chi non ne soffre)”. Sono ragazze prevalentemente giovani, di età media pari a 26 anni (dati ReNCaM). “Mi arrabbio quando leggo che una ragazza è morta di anoressia”, racconta la psichiatra, perché “se ci si cura oggi è possibile guarire. E’ quindi corretto dire che quelle che muoiono sono ragazze che non sono arrivate alle cure". Cure che però devono essere il più possibile tempestive, “possibilmente nel primo anno di storia di malattia, al massimo due. Guarire non è mai impossibile, ma diventa più difficile con il passare del tempo”. Prima si arriva alle cure, prima si guarisce. E si torna alla vita. Questo è il desiderio più grande di Matilde e Carlotta, due giovani pazienti curate nella residenza di Palazzo Francisci.

Matilde: "Desidero di nuovo il mondo fuori. Voglio tornare a fotografare"

Matilde ha 18 anni, a Todi è arrivata da Roma. Racconta che il suo malessere inizia a marzo 2020, con il primo lockdown. Un disagio che pensava passeggero: “Volevo solo perdere qualche chilo, ed ero felice perché ci stavo riuscendo. Mangiavo meno, non condivo più il cibo, mi allenavo tantissimo”. Nuove abitudini che non avrebbe mai pensato potessero portarla in fretta al buio dell’anoressia. Venti i chili che ha perso in un anno. “Nel 2021 ho toccato il punto più basso”, racconta. “Poi ho ricominciato a mangiare, ma tutto è degenerato nella bulimia: avevo comportamenti compensatori come il vomito, poi ho persino smesso la motivazione di compensare”. Ora il suo disturbo si è “trasformato” in binge eating, che la porta ad abbuffarsi.
 

Dopo un percorso con una nutrizionista prima, con una psicologa poi e l’incontro con altri specialisti, Matilde e la sua famiglia hanno fatto domanda per curarsi a Palazzo Francisci, dove è ricoverata da un paio di mesi. “Sto lavorando molto su me stessa, sulla mia mente e sul mio passato, con l’aiuto di una psicologa e anche della terapia di gruppo che si fa qui. E contemporaneamente mi sto riabituando a un’alimentazione normale, con pasti regolari”. Racconta Matilde che quello che ha originato i suoi DCA è un dolore profondo che non è facile identificare. “So che il rapporto con la mia famiglia è stato cruciale: a casa non emergevano mai le mie opinioni, le mie idee. Ammalarmi è stato un modo per farmi vedere da loro, per dire ‘sono qui’”. Come un grido di autodeterminazione: “Anche lasciare due rigatoni nel piatto era un modo per affermarmi”. Se però da una parte sentire di avere il controllo, racconta, le dava la sensazione di essere “potente”, dall’altra c’era il dolore del vuoto. “Non sentivo più niente. Mi ero come svuotata di me per provare agli altri che esistevo”.
 

Davanti a sé ha ancora metà del percorso a Palazzo Francisci: “Da quando sono qui sento di aver compiuto un bel miglioramento. Ci sono state delle ricadute, ma ho imparato che fanno parte del percorso, che non è lineare”. Oggi Matilde riesce a scorgere uno spiraglio di luce nuovo: “Grazie al ricovero qui sto comprendendo la bellezza del mondo fuori, e mi sto rendendo conto che lo desidero”. Quel mondo oltre la campagna umbra lo immagina pieno di passioni, come quella per la fotografia, poi l’università e un giorno andare a vivere da sola. “Non voglio più accontentare gli altri, ma trovare il mio spazio per quello che mi piace. E stare bene”.

 

Carlotta: "Non voglio più sopravvivere. Sogno di diventare neuropsichiatra”

Anche Carlotta ha 18 anni, e anche per lei l’anno spartiacque è stato il 2020, quello in cui tutto si è fermato. Le prime avvisaglie di un disagio che è poi sfociato in DCA si sono manifestate nell’estate dopo il primo lockdown. “Ho iniziato ad avere problemi con il cibo e con il mio corpo. Avevo cominciato ad allenarmi tantissimo, ero molto concentrata sulla scuola e sulla ginnastica ritmica che praticavo a livello agonistico”, racconta. L’estate successiva le cose peggiorano: finisce la scuola, vince le Nazionali di ritmica. Inizia il vuoto. “Non c’è tempo per chiedere aiuto”, a farlo sono i suoi genitori, racconta: “Ho perso molto peso, il mio corpo era troppo debilitato. Ho realizzato tutto quando mi trovavo già in ospedale, dove sono stata ricoverata per sette mesi. Lì, più che curarmi, tutte le mie forze sono state concentrate nel provare a riprendermi fisicamente”.
 

Dopo il ricovero che però non ha avuto gli effetti sperati, Carlotta ha trascorsi altri quattro mesi in una clinica psichiatrica. “Quando sono uscita sembrava andasse di nuovo tutto bene, ero contenta. Ma quella finta guarigione è durata un mese, fino alla ricaduta. Ho ricominciato a non mangiare più niente, assumevo solo integratori”. Dopo diversi tentativi che si sono rivelati inefficaci, dalla Toscana anche lei è arrivata in Umbria, a Palazzo Francisci. “Sono contenta delle persone che ho trovato qui, ci segue un personale fantastico che si dedica a noi al 100 per 100, e ci aiuta a rifondare il nostro stato di salute. Mi piacciono le attività di gruppo a cui partecipiamo: si fanno anche corsi di meditazione, yoga, karate, musica…”. Stare con le altre ragazze, dice Carlotta, è positivo: si condivide la stessa esperienza, ci si rivede l’una nell’altra. A volte farsi da specchio può essere anche difficile: “Ci sono momenti in cui parla la malattia per noi”.


Perché questa malattia, spiega, ti fa sentire “vuota, apatica, e impaurita”. “Non si provano più sentimenti, non c’è più niente che ti procura interesse, solo il cibo ha il potere di entrare e restare nella tua testa”. Ma l’ossessione per il cibo è solo una manifestazione di un dolore: “La paura di riprendere peso non è quella principale: la paura più grande è quella del cambiamento, quella di non accettarmi come persona, al di là del mio corpo”. Carlotta ha da poco ripreso a studiare, e una volta guarita vorrà frequentare Medicina, poi specializzarsi in Neuropsichiatria infantile. “Da anni ormai sto sopravvivendo. Appena sarò pronta, ho voglia di riprendere la mia vita in mano”.

approfondimento

Disturbi alimentari, dall'Iss la prima mappatura dei centri di cura