Alzheimer, una terapia con la luce potrebbe rallentare la malattia

Salute e Benessere
Immagine di archivio (Getty Images)

Esponendo dei topi a determinati impulsi luminosi, i ricercatori del Picower Institute for Learning and Memory sono riusciti a bloccare il processo di neurodegenerazione 

I risultati di un nuovo studio condotto da Li-Huei Tsai, il direttore del Picower Institute for Learning and Memory del MIT di Boston, suggeriscono che in futuro potrebbe essere possibile rallentare il decorso del morbo di Alzheimer e il suo processo degenerativo tramite una nuova terapia basata sull’esposizione degli occhi dei pazienti a impulsi luminosi a frequenze specifiche per un’ora. La ricerca, pubblicata sulle pagine della rivista specializzata Neuron, è il frutto di una serie di test condotti sui topi. Da poco, il team di ricerca ha avviato una sperimentazione clinica di fase 1 sui pazienti, con una nuova terapia basata su stimolazione luminosa e acustica in contemporanea.

Il trattamento

Li-Huei Tsai spiega che l’esposizione alla luce (alla frequenza di 40 hertz) ha consentito di bloccare la neurodegenerazione nei topi. I roditori predisposti a sviluppare l’Alzheimer sono stati trattati prima dell’inizio del processo neurodegenerativo. I ricercatori li hanno esposti agli impulsi luminosi per un’ora al giorno per un periodo di 3-6 settimane, riuscendo così a evitare la perdita dei neuroni, proteggere la loro funzione neurale e impedire che il loro cervello fosse danneggiato da processi infiammatori. Nello stesso tempo, i topi non trattati con la luce hanno perso il 15-20% dei neuroni. Tutti i roditori sono stati in seguito sottoposti a un test di memoria spaziale: quelli trattati hanno ottenuto dei risultati migliori.

Le conclusioni dei ricercatori

Lo studio ha permesso al team di ricerca di comprendere che l’esposizione agli impulsi luminosi induce il cervello a produrre delle onde gamma, essenziali per la salute neurale. Il trattamento, inoltre, promuove l’azione di geni protettivi, favorendo così la rimozione delle proteine tossiche (come la beta-amiloide) che si accumulano nell’encefalo dei pazienti. Il prossimo obiettivo degli studiosi è determinare l’eventuale efficacia della terapia anche nei topi in cui il processo di neurodegenerazione è già in atto.

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