Gli eredi di Umberto II citano lo Stato: “Restituiteci i gioielli della Corona”

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"A differenza degli altri beni, questi non sono mai stati confiscati e sono rimasti pendenti. Perciò devono essere restituiti", ha spiegato l'avvocato Sergio Orlandi che ha ricevuto la delega dal principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice

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Il principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice, eredi di Umberto II, citeranno in giudizio la presidenza del Consiglio, il ministero dell'Economia e la Banca d'Italia per la restituzione dei gioielli della Corona, custoditi in un caveau della stessa Banca d'Italia dal giugno 1946. La delega è stata affidata all'avvocato Sergio Orlandi, che spiega all'ANSA: "A differenza degli altri beni, questi non sono mai stati confiscati e sono rimasti pendenti. Perciò devono essere restituiti". La citazione segue un tentativo di mediazione, tenutosi oggi, che ha avuto esito negativo.

I gioielli della Corona

Diademi, orecchini e collier con oltre seimila brillanti e duemila perle del valore di svariati milioni di euro sono questi i gioielli della Corona rivendicati dagli eredi dell'ultimo re d'Italia e custoditi nella Banca Centrale dal 5 giugno 1946, tre giorni dopo il referendum che sancì la caduta della monarchia. "Quei gioielli sono nostri e, in quanto beni personali, abbiamo diritto a riaverli", sostengono Il principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice.

La mediazione saltata

La tesi dei Savoia già stata respinta dallo Stato che ha fatto saltare l'ultimo tentativo di mediazione svoltosi proprio in queste ore. Nel centro di Roma, in via degli Scipioni, a qualche chilometro da Montecitorio dove intanto si sta decidendo il nome del tredicesimo presidente della Repubblica, i mancati regnanti hanno rispolverato gli ingialliti documenti sulla proprietà delle parure sfoggiate nei salotti reali di almeno 76 anni fa, prima della caduta del quarto e ultimo monarca del Regno d'Italia: nella sede dell'ufficio di mediazione c'erano da una parte i rappresentanti della Banca d'Italia e dall'altra il principe Emanuele Filiberto, presente in qualità di delegato del padre Vittorio Emanuele e delle zie, con il loro avvocato Sergio Orlandi. Per quest'ultimo, la chiave che potrebbe portare alla riapertura di quei caveau e alla "restituzione dei gioielli" è proprio "una prospettazione di incostituzionalità" alla luce del verbale di consegna redatto ai tempi dell'allora governatore della Banca d'Italia, Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica.

La contesa

A quanto si apprende, in quel documento del 5 giugno 1946, "si affidavano in custodia alla cassa centrale, per essere tenuti a disposizione di chi di diritto, gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette gioie di dotazione della Corona del Regno". Quel cofanetto con i gioielli fu quindi sigillato e riaperto solo negli anni '70, dopo la segnalazione (in seguito rivelatasi falsa) di una manomissione, che portò gli inquirenti nella sede di Bankitalia per un'ispezione. Dopo aver fatto nuovamente sigillare lo scrigno, la Procura di Roma stabilì un vincolo secondo cui i magistrati andavano informati ogni volta che venisse spostato. Dal 2006 quel vincolo non c'è più ma è molto probabile che, nel caso in cui quei brillanti venissero portati all'esterno della mura di palazzo Koch, ne sarebbe proibito il trasporto all'estero. Resta un dato che potrebbe aprire lo spiraglio ad una serie di interpretazioni giuridiche: di quei preziosi Bankitalia ne è ufficialmente 'mera depositaria'. È per questo che, prosegue l'avvocato, "a differenza degli altri beni, questi non sono mai stati confiscati e sono rimasti pendenti. Perciò devono essere restituiti". Ma lo Stato italiano ha già bocciato questa richiesta. "Ieri - aggiunge ancora Orlandi - la presidenza del Consiglio aveva fatto pervenire una prima comunicazione all'Adr center (sede dell'ufficio di mediazione, ndr) sostenendo che non avrebbero presenziato all'incontro fissato perché, a quanto si sostiene, quei gioielli non sarebbero beni personali ma in dotazione del regno d'Italia. All'incontro erano presenti solo i rappresentanti della Banca d'Italia". Un primo tentativo per riavere i gioielli custoditi in via Nazionale era stato fatto in maniera formale lo scorso novembre e aveva già ricevuto il diniego di Bankitalia. Ma i Savoia sono decisi ad andare fino in fondo per riavere quei 6.732 brillanti e duemila perle, di diverse misure, montati su collier, orecchini, diademi e spille. Nessuno ha mai stimato ufficialmente questi oggetti - si oscilla dai pochi milioni di euro ai trecento, fino a un giudizio di valore "inestimabile" per la rilevanza storico-culturale dei beni - ma questa vicenda sembra aver riacceso la curiosità sul valore di questo ex-patrimonio di famiglia.

I Savoia
Vittorio Emanuele di Savoia tra le sorelle Maria Gabriella (a sinistra) e Maria Beatrice, detta Titti, in una immagine d'archivio - ©Ansa

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