La dura vita del grand commis in Italia

Ed ecco che, quando si tratta di soldi, le leali collaborazioni si incrinano. E quando si tratta di soldi pubblici, si rivela fragile addirittura il dettato costituzionale che le prevede come regola di comportamento tra poteri e tra comparti della pubblica amministrazione. Non l’ha inventata Antonio Tajani la parabola dell’alto funzionario – nelle sue parole il “grand commis” - che si impiccia e, dall’alto della sua competenza di tecnico, imprime un indirizzo politico senza con la politica sporcarsi le mani. È questo che i politici – in particolare i cavalli di razza come Tajani – non sopportano. Rino Formica lo ricordava sempre, un po’ come monito, un po’ per scoraggiare i meno attrezzati: la politica è sangue e merda. Quando sei lì, è facile sporcarsi. E per una detersione a fondo ci vuole tempo e pazienza. Per questo le mani pulite dei tecnici, siano ragionieri generali dello Stato, economisti prestati alla politica, o “professoroni” che fanno prediche sui “giornaloni” e poi diventano magari senatori a vita… Quelle mani pulite non piacciono. Era mal tollerato pure Mario Draghi, figuriamoci Daria Perrotta: donna che ha fragorosamente infranto il famoso tetto di cristallo che impediva – ancora impedisce – al genere femminile di accedere alle cariche apicali, soprattutto in Italia. Dove, tra l’altro, fare il ragioniere generale dello Stato è mestiere particolarmente difficile. Siamo o non siamo il secondo paese più indebitato d’Europa? La risposta è sì, quindi… Prima di Tajani, il fastidio aveva preso – per citare solo i più vicini nel tempo – Giuseppe Conte. La voce che voleva allontanare i dirigenti del Mef perché non trovavano le risorse per il reddito di cittadinanza e abolire così la povertà era di Rocco Casalino, ma l’animus era dell’allora presidente del Consiglio e dell’amico Luigi Di Maio. Del quale si ricorda il riferimento a varie “manine” addestrate a cambiare testi di legge ad insaputa degli autori e che, guarda un po', sarebbero state di stanza al ministero dell’Economia, il paradiso dei tecnici. Dopo le manine anonime sono venuti i nomi e i cognomi. La storia del predecessore di Daria Perrotta, Biagio Mazzotta, è l’esempio più clamoroso. Il ragioniere generale accusato di non saper far di conto: fosse davvero così, un clamoroso esempio di selezione negativa – perniciosa, direi – della classe dirigente. Colpevole, Mazzotta, di aver clamorosamente sottovalutato l’esborso necessario a finanziare il superbonus edilizio. Che avrà pure tenuto a galla l’economia italiana negli anni a cavallo del Covid, ma a costo di un buco di bilancio di circa 150 miliardi di euro. Lungi dall’aver pagato qualcosa per quella che una volta veniva chiamata “responsabilità oggettiva”, Mazzotta ha subìto sì lo spoil system alla Ragioneria generale, ma è diventato - senza fermarsi nemmeno un giro - presidente di Fincantieri, aumentando di molto il suo stipendio. E torniamo ad oggi. Al posto di Mazzotta, Giorgetti ha voluto Perrotta. La conosceva dai tempi in cui presiedeva la commissione finanze della Camera, dove l’attuale ragioniera generale era documentarista. Perfetta figura da gran commis: la sua competenza tecnica è stata negli anni a disposizione di governi di colore diverso, forse – forse – con una lontana, maggiore simpatia per Matteo Renzi e la sua classe dirigente. Solo che, da un po’, tra Tajani e la Lega è polemica continua. L’accusa del leader di Forza Italia è ben congegnata, perché punge doppiamente: da una parte, l’intelligenza di Giorgetti con il nemico, la ragioniera simpatizzante dell’opposizione. Dall’altra – e questa punge forse di più – aver delegato a una tecnica parte importante della scrittura della legge di bilancio, legge che più politica non si può. Non succederà niente e ci dimenticheremo presto di tutta la storia, vedrete. Tutto sommato, è meglio così.

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Massimo Leoni