Meloni e il suo “autunno caldo”

Il calendario non segna ancora settembre, ma a Palazzo Chigi guardano già all’autunno che verrà. Non tanto per il cambio di stagione, quanto per il lento addensarsi di dossier, aspettative e vincoli con cui dover fare i conti. Non è una fase propriamente di emergenza per il governo, ma è quella in cui si comincia a rispondere di scelte fatte nei mesi passati. E in cui il margine per altre promesse si riduce. Il tutto condito da una numerosa serie di incognite. La presidente del Consiglio arriva a questo bivio forte di un consenso ancora alto, di una coalizione che al momento regge, e di una reputazione internazionale consolidata. Ma anche con una serie di partite aperte che, nei prossimi mesi, potranno cambiare il ritmo della legislatura. Dazi, difesa, bilancio La prima cartella sul tavolo riguarda l’economia. Da oggi i dazi statunitensi sulle merci europee passano al 15%, minacciando una perdita di export per l’Italia stimata tra 13 miliardi di euro e 40 mila posti di lavoro a rischio — con effetti particolarmente rilevanti per settori come meccanica, agroalimentare, moda e tecnologia. Bisognerà attivare una politica di ristori, convincere l’Europa a fare altrettanto, capire come rendere davvero “sostenibile” la politica tariffaria di Donald Trump. Meloni si è esposta in un “rapporto privilegiato” con il presidente americano. Ma se il conto da pagare sarà troppo alto, per la premier altrettanto alto sarà il prezzo politico che rischia di dover saldare in prima persona. A questo si somma il capitolo difesa. Dopo mesi di colloqui e pressioni, l’Italia ha confermato l’intenzione di portare la spesa militare al 2% del PIL entro il 2025. È una soglia simbolica ma concreta, fissata dalla NATO, ribadita da Washington, condivisa in Europa. La traiettoria è chiara, ma non lineare. Anche l’opzione – condivisa da Bruxelles, dopo le pressioni di Roma – di considerare queste spese “fuori deficit” non cancella, per il momento, la necessità di dirottare comunque investimenti su questo versante. Il punto è mantenere quella promessa fatta da Meloni per la quale le spese militari non toglieranno un euro agli italiani. Si è deciso di aderire al fondo europeo SAFE, che metterà a disposizione fino a 15 miliardi in prestiti agevolati per sostenere gli investimenti militari. È una partita tecnica, ma non solo: scegliere dove investire, quando i margini sono stretti, è sempre una scelta politica. Ed è qui che la legge di bilancio entra in scena. L’Italia è ancora sotto procedura europea per deficit eccessivo. L’obiettivo di riportarlo sotto il 3% è fissato al 2026, ma già da quest’autunno il governo dovrà indicare come intende rispettare l’impegno. Nessuna decisione è ancora formalizzata, ma i numeri parlano chiaro: crescita rallentata, margini ridotti, pressione sulle uscite. Anche rispettare questo impegno non sarà semplice. Il silenzio del PNRR Nel frattempo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vive settimane di silenzio. Dopo la richiesta formale a Bruxelles dell’ottava rata da 12,8 miliardi, trasmessa a fine giugno, non ci sono stati nuovi annunci. Siamo entrati in una fase di cauta attesa: ogni nuova tranche è legata al rispetto di target precisi, ogni ritardo ha un costo, ogni mancata realizzazione un buco di bilancio. Come abbiamo già scritto, l’Italia sconta un ritardo nella spesa, dovuto non tanto al governo quanto a un sistema Paese che fatica a spendere e realizzare progetti in tempi che non siano calende greche. L’autunno – anche per questo – sarà cruciale per capire se la macchina riuscirà a rispettare i tempi del piano oppure no. Il ponte sullo Stretto, il nuovo simbolo del "fare" Sul fronte infrastrutturale, il ponte sullo Stretto torna ad assumere un ruolo centrale. Non solo per l’impatto economico, ma per il significato politico che il governo gli attribuisce. Per la Lega è il collante che le permette di stare in una maggioranza dove non guida, ma deve andare a traino degli altri. Il ponte è diventato il biglietto da visita di Salvini, anche se l’opera – ammesso e non concesso che davvero venga realizzata – non sarà reale prima del 2032. L’Italia è poi intenzionata a classificarla come “infrastruttura dual use”, ossia parte della rete strategica NATO, funzionale anche alla mobilità militare e alla difesa del Mediterraneo. È una scelta narrativa precisa: rendere il ponte qualcosa che guarda non solo alla Sicilia, ma oltre.Dopo l’approvazione del progetto restano aperti tutti i capitoli esecutivi, ambientali e attuativi. La partita non è chiusa, e l’avvio effettivo sarà il primo vero test. Ma la tenuta del ponte, in questa fase, è propedeutica alla tenuta politica della coalizione di governo. La politica in controluce Sul piano interno, l’equilibrio tra i partiti di maggioranza regge, ma sempre in bilico perenne. Il clima è cambiato. Forza Italia spinge per un profilo più autonomo e istituzionale. La Lega si muove nel segno dell’identità, cercando di recuperare visibilità su temi securitari e migratori. Fratelli d’Italia mantiene il baricentro a Palazzo Chigi, ma si confronta con il compito più difficile: governare senza aumentare la distanza col Paese. All’orizzonte ci sono le elezioni regionali. La contesa per il Veneto tra il Carroccio e il partito della premier. Il futuro di Luca Zaia. Ambizioni difficili da conciliare. Sulla scena nazionale aleggia l’ipotesi di una discesa in campo di Pier Silvio Berlusconi. Il centrodestra è ancora compatto, ma il logoramento naturale della legislatura potrebbe portare velocemente a nuovi equilibri tutti da riscrivere. Il caso Al Masri, lo scontro con la magistratura Da non dimenticare il caso Al Masri. Il Tribunale dei ministri di Roma ha chiesto alla Camera l’autorizzazione a procedere nei confronti di Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, per il rimpatrio dell’ex generale libico nonostante una richiesta di arresto della Corte Penale Internazionale. La presidente del Consiglio, la cui posizione è stata archiviata, ha evocato un “disegno politico” volto a colpire il governo, per la sua determinazione nel voler riformare la giustizia e procedere con la separazione delle carriere dei magistrati. È evidente che ci troviamo già di fronte a uno scontro istituzionale al massimo livello. Resta da capire che tipo di conseguenze tutto questo potrà avere: sulle dinamiche parlamentari, sull’esecutivo, nei rapporti con il Quirinale, con l’opinione pubblica. Gli scontri – tanto facili da aprirsi quanto difficili da chiudersi – portano con sé quasi sempre variabili ed evoluzioni difficili da prevedere. E, in molti casi, da gestire. L'autunno come momento di verità Ecco allora che per Meloni l’autunno alle porte, più che caldo, rischia di essere incandescente. Con il rischio di crepe ma anche scosse nei sondaggi. Motivo per cui non ci sarà solo da gestire i vari dossier, ma anche elaborare una risposta politica a un elettorato che, al quarto anno di questo governo, attende di vedere i risultati. Alle difficoltà contingenti si aggiunge una sorta di fase della verità. Perché le promesse fatte nei primi mille giorni ora devono essere convertite in azioni verificabili. In questo scenario, Giorgia Meloni ha davanti a sé una prova diversa da quelle già affrontate: non più quella della legittimazione o del consolidamento, ma quella della coerenza tra ciò che è stato annunciato e ciò che sarà effettivamente realizzato. Prima di andare in ferie, la presidente ha lasciato un messaggio scritto a mano nella sala stampa di Palazzo Chigi: “A tutti i Chigisti, grazie di tutto e buone vacanze. Cercate di riposare, che alla ripresa si corre”. Un saluto informale ai giornalisti che, in quella chiosa finale su un rientro denso di cose, evidenzia una consapevolezza: settembre non sarà una semplice ripresa. Sarà il passaggio decisivo della legislatura.

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Andrea Bonini