Israele, Gaza e le esitazioni italiane

L’Italia, il suo ministro degli esteri, ha posto la firma in calce al comunicato congiunto di condanna all’intenzione del governo di Tel Aviv di procedere all’occupazione totale della Striscia, Gaza City compresa. Il documento è un atto importante, certamente un cambio di tono rispetto a contenuti tutto sommato già ascoltati nei giorni precedenti. Nel linguaggio della diplomazia internazionale, dove le parole si pesano con grande e a volte eccessiva attenzione anche di fronte a situazioni che meriterebbero posizioni drastiche, il comunicato rappresenta un salto di qualità. Anche per il gruppo stesso dei firmatari. Ci sono Australia e Nuova Zelanda, lontanissime dalla striscia ma parte integrante del mondo politico e diplomatico anglosassone. C’è ovviamente la Gran Bretagna, il cui governo aveva già annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese. C’è la Germania, ancora incerta sul riconoscimento ma pronta a fare un passo forse più significativo sul piano pratico: la sospensione di qualsiasi fornitura di materiale bellico al governo di Netanyahu. L’intreccio di sentimenti del popolo e della nazione tedesca sul tema non è da sottovalutare. Dare esplicitamente torto allo Stato ebraico è un segno che ogni misura è stata oltrepassata è l’ulteriore riprova che il tempo che stiamo vivendo sta rapidamente polverizzando le categorie di giudizio e di scelta che abbiamo usato dal dopoguerra a oggi. A questi quattro paesi si sono poi aggiunti La Francia e poi Austria, Canada, Norvegia. Un documento di condanna di paesi molto importanti sullo scacchiere internazionale rispetto a comportamento e decisioni tragiche e intollerabili anche dal punto di vista del diritto internazionale è sempre una buona notizia. Vale la pena però capire cosa è cambiato nelle ultime ore perché questo sia stato possibile. E ciò che è cambiato non sono né le intenzioni di Israele, né la contrarietà dei paesi firmatari – in linea di principio – a quelle intenzioni. Quello che è cambiato, direbbero gli economisti, è un fattore esogeno: che determina ma non è determinato da chi ha preso la decisione. Quello che è cambiato – in maniera esplicita nelle ultime ore – è l’atteggiamento e la posizione americana sull’occupazione totale di Gaza. L’amministrazione Trump è passata dallo scarso entusiasmo – una sostanziale non intromissione, al netto delle preoccupazioni sull’arrivo degli aiuti nella striscia che coinvolgono contractor statunitensi – alle parole del segretario di Stato J.D. Vance: “Gli Usa non possono sostenere alcun piano di occupazione permanente della Striscia”. Ancora: linguaggio felpato, ma messaggio chiaro. Chiarezza che ha creato probabilmente le condizioni perché ci fosse, nel comunicato congiunto – di condanna e di forte preoccupazione – la firma italiana oltre a quelle di Gran Bretagna, Germania, Australia e Nuova Zelanda. Formazione tra l’altro – pare di ricordare – inedita. L’Italia è molto attenta a non prendere posizioni troppo distanti – tantomeno di rottura – con l’amministrazione americana. Da una parte c’è la tradizione atlantista, mai messa seriamente in discussione da nessun governo del dopoguerra. Dall’altra la vicinanza/amicizia politica tra Trump e Meloni, che pare resistere anche a prove durissime giustificate da un concetto di sovranità nazionale molto esteso che è terreno ideologico comune ai due governi. Tutto abbastanza normale. Ad eccezione di quello che accade a Gaza. La sua eccezionalità meriterebbe prese di posizione più autonome e tempestive, specie da parte di un Paese – il nostro – vicinissimo al teatro della guerra e con una antica, inevitabile vocazione diplomatica Mediterranea. La firma sulla dichiarazione congiunta? Meglio tardi che mai.

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Massimo Leoni