PNRR, la resa dei conti

Sul calendario del governo c’è una data cerchiata in rosso: è quella del 31 agosto 2026, momento della rendicontazione finale del PNRR. È la data ultima, quella a cui si dovrebbe arrivare con i cantieri di fatto chiusi e i progetti realizzati. Considerato che allo stato attuale non si vedono proroghe all’orizzonte, quella scadenza rischia di diventare anche uno spartiacque politico tale da pregiudicare la capacità di sopravvivenza del governo. Il meccanismo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è molto rigido: i fondi non spesi, per i progetti non realizzati, vanno restituiti. Allo stato attuale l’Italia sconta il suo storico problema, una capacità di spesa al rallentatore, figlia di mille cause: dalla burocrazia oppressiva, alle regole multiple, alla difficoltà di gestione di appalti complessi. A questo si aggiunge un elemento che spesso resta sottotraccia: in molti casi sono le Regioni e gli enti locali a detenere la titolarità degli interventi. Il risultato è che la tenuta del PNRR non dipende solo da Palazzo Chigi, ma da una costellazione di amministrazioni spesso in affanno, con personale insufficiente, difficoltà tecniche e responsabilità poco chiare. I ritardi accumulati in questi mesi, anche nei piccoli comuni, contribuiscono a zavorrare l’intero piano. Ad oggi, è stato speso meno della metà delle risorse ipotecate. L’Italia ha incassato 8 rate ma i dubbi sulla capacità di chiudere tutti i cantieri sono molto forti. Secondo gli ultimi dati aggiornati a fine maggio, l’Italia ha speso circa 79 miliardi di euro, poco più del 40 % del totale previsto dal Piano. Ma il dato medio nasconde squilibri e ritardi strutturali: oltre il 70 % delle misure finanziate è sotto il 25 % di attuazione, e appena il 9 % ha superato la soglia del 50 %. A preoccupare sono anche i dati territoriali: in molte regioni del Sud, la spesa effettiva non raggiunge neppure il 15 %, e interi comparti – come quello sanitario – hanno utilizzato finora meno di un quinto delle risorse disponibili. Stando ad alcune proiezioni riservate, tra 30 e 40 miliardi rischiano di restare inutilizzati. Una cifra che il governo sta tentando di rinegoziare con Bruxelles per reinvestirla su progetti alternativi, ma che ad oggi pesa come un potenziale buco nero sui conti pubblici. Se così fosse per il nostro Paese sarebbe un grosso problema. Non solo per la mancata riuscita dell’opera di ammodernamento dell’Italia, quanto perché a quel punto tra mancate risorse in entrata, restituzioni di fondi, buchi di bilancio che si verrebbero a creare, si rischierebbe una instabilità dei conti estremamente pericolosa. Sia per i valori economici della stessa, quanto per quelli politici legati alla tenuta dell’esecutivo. Sul primo punto bisognerebbe capire come fronteggiare un impatto che per qualcuno avrebbe quasi le stesse conseguenze di un “mini default”. Sul secondo punto non è detto che sia questo governo a pagarne il prezzo. In Parlamento, tanto tra le fila d’opposizione che tra quelle di maggioranza, sono in tanti ad essere convinti che in assenza di proroghe da Bruxelles o di fronte a un PNRR impossibile da chiudere potrebbe essere la stessa Meloni a decidere di staccare la spina, qualche mese prima. Anticipare lo scoppio del bubbone, evitare di essere additati come quelli che non sono riusciti a portare a casa il risultato. Di certo caricarsi sulle spalle il fallimento di un piano – voluto da Conte, impostato da Draghi, gestito suo malgrado da Meloni – non sarebbe sostenibile. Ecco che a quel punto un incidente in Parlamento potrebbe cambiare la cornice di quello stretto passaggio. Gli scenari che vengono tratteggiati sono due. Il Paese rischia la tenuta economica, in nome dell’emergenza nazionale e della necessità di gestire proprio il PNRR, entra in gioco un governo del presidente. Un governo tecnico, identificato da Mattarella, che le forze politiche in Parlamento sosterrebbero per il tempo limitato alla gestione di quella fase critica. Altra possibilità. Si torna subito al voto. Dopo mille giorni di governo, diversi osservatori rilevano come i partiti della maggioranza – in particolare Fratelli d’Italia – godano oggi di un consenso quasi superiore a quello ottenuto nel 2022. Anche per questo, all’interno della coalizione si guarda con interesse all’ipotesi di un ritorno anticipato alle urne: sfruttare il momento favorevole, prima che il logoramento del consenso e le incognite del PNRR rendano lo scenario più rischioso. Un anticipo consentirebbe inoltre di consolidare la leadership della premier all’interno della maggioranza, contenendo tensioni e possibili spinte centrifughe. Questa seconda opzione è quella che piace di più ai partiti di maggioranza. La convinzione – trasversale al centrodestra – è che l’opposizione non sarà in grado di produrre una candidatura sufficientemente forte da poter ostacolare Meloni. La premier a quel punto potrebbe rivincere, assicurarsi di nuovo Palazzo Chigi. Con davanti cinque anni di potenziale governo la gestione dell’eventuale fallimento del PNRR non sarebbe più una questione di vita o di morte. Anzi la necessità di un governo stabile per affrontare la nuova emergenza sarebbe a quel punto un elemento quasi necessario. Certo, per Meloni significherebbe rinunciare alla suggestione di un esecutivo che arriva a fine legislatura senza rimpasti o altro, ma un’operazione simile le consentirebbe di blindarsi a Chigi, senza appunto pagare il prezzo di una caduta sul Piano di ripresa e resilienza. È una questione di tempi e mosse. Agire prima che il problema si manifesti. Politicamente potrebbe portare con sé altre utilità, come per esempio accorciare i tempi per una eventuale discesa in campo di Pier Silvio Berlusconi. Ridurgli gli spazi per costruire un profilo di contendente all’interno della sua stessa area politica. In fondo, anche in politica vale la regola del vantaggio strategico: prevenire la crisi è spesso il modo più astuto per non subirla. Anche quando questa è solo rimandata.

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Andrea Bonini