Pier Silvio, Meloni e la fine della “solitudine al potere”

Non è servito un annuncio, né un proclama. È bastata una frase aperta, e un riferimento temporale preciso, perché Pier Silvio Berlusconi riportasse se stesso – e il cognome che porta – al centro del dibattito nel centrodestra e nel governo. Dopo mesi – o sarebbe meglio dire anni – di gossip sulla sua possibile discesa in campo, Pier Silvio, per la prima volta, non ha escluso che questo possa accadere: “Oggi non ho nessuna intenzione, ma guardando al futuro non lo escludo. Una sfida completamente nuova, perché no?” Poi un riferimento preciso e affilato: “Ho 56 anni, mio padre è sceso in campo a 58. Ho ancora due anni di tempo.” Una battuta, certo. Ma, se inserita nel contesto politico, cade perfettamente nella finestra delle prossime elezioni. Ecco allora che, se non è un annuncio, è un segnale. Da non sottovalutare. Come se non bastasse, con un’altra frase ha messo in riga Forza Italia e i suoi dirigenti: “Forza Italia è ancora molto bella, ma un po’ vecchia. Non tanto anagraficamente, ma come mentalità. Ci vorrebbe gente nuova.” E ha aggiunto, riferendosi ai vertici attuali: “Tajani è bravissimo, ma ci vuole anche altro, nel senso di apertura, di visione del futuro. Se non ci fosse Tajani, bisognerebbe inventarlo… io lo stimolo a introdurre nella squadra presenze nuove.” Non una rottura, ma un avviso che potrebbe essere il preludio di una rottamazione gentile. È evidente che, anche volendo sforzarsi di classificare tutto questo come un’uscita estemporanea, non sfugge ai più che Berlusconi Jr. non l’abbia detto a caso. In primis perché ha sempre fatto della riservatezza una sua prerogativa, poi perché è fin troppo consapevole del peso del cognome che porta e degli effetti che ogni parola etichettata alla voce “Berlusconi” può produrre. Perché dunque quelle parole, e perché proprio oggi? Difficile dare una risposta univoca. L’uscita ha colto di sorpresa tutti. C’è chi sostiene che l’obiettivo fosse solo quello di dare una scossa al partito: che Pier Silvio voglia più aperture sui diritti civili e che sia preoccupato per una classe dirigente che ha fatto dell’immobilismo personale un mestiere. Ma anche così, il messaggio resta forte. E forse sproporzionato. Altri ipotizzano che abbia voluto sganciare un assist a Meloni. Le sue parole nei confronti della premier sono state calorose: “La stimo molto, è molto brava. Sta facendo quello che serve, con coerenza e senza paura.” Ma in entrambi i casi – e per entrambi – vengono comunque fissati dei paletti: quello di una presenza attenta, tutt’altro che distante e disinteressata, ma soprattutto indisponibile ad un banale appoggio incondizionato. Con un ulteriore principio che torna a far capolino sulla scena: il centrodestra non può non tener conto della sua storia, del suo equilibrio, del suo peso. E questo, per Meloni, rischia di essere il punto più delicato. La mossa di Pier Silvio arriva in un momento in cui la politica si è fatta poco entusiasmante. Meloni è solida ma non empatica per tutti, Salvini si è logorato, Tajani rischia di apparire opaco. In questo vuoto di simboli e passione, anche la semplice evocazione di un “Berlusconi 2.0” riattiva un immaginario sepolto ma ancora presente. Non è nostalgia: è un bisogno di identità. Non solo di potere, ma anche di racconto. E in questo campo, nessuno – finora – ha saputo parlare al cuore di una parte del Paese più di chi portava quel cognome. C’è poi una terza ipotesi: che Pier Silvio ci stia pensando davvero. Che non sia più solo una fantasia dei retroscenisti, ma un’idea coltivata con metodo. Se così fosse, per Forza Italia sarebbe un boost. Ma per il governo – e per il centrodestra nel suo complesso – potrebbe essere un terremoto. L’Italia è un Paese che vive di flirt, e l’ultimo arrivato piace sempre più di chi è già in scena. Il fascino berlusconiano si rinnoverebbe in un attimo, soprattutto per chi associa Arcore al sogno italiano del 1994. Con la suggestione del figlio che oggi ne diventa custode. La potenziale leadership di Pier Silvio non è sovrapponibile a quella paterna. Ma nel mondo di oggi, la sua discesa in campo non avrebbe bisogno di discorsi epici né di truppe cammellate. Il suo peso non sarebbe nei congressi, ma nella reputazione e nell’algoritmo. Un partito “alla Pier Silvio” sarebbe più Zuckerberg che Publitalia, più media strategy che circolo territoriale. In un’Italia dove la politica è sempre più comunicazione, questa formula potrebbe essere molto più competitiva di quanto sembri. Quelle parole – anche senza candidarsi – rompono poi l’idea che Giorgia Meloni sia l’unico attore rilevante del centrodestra. Rischiano di suonare quasi come un promemoria: nessuno governa per delega eterna. Nessuno può fare politica “a piacimento”, enfatizzando solo il proprio consenso. Se Berlusconi Jr. diventasse davvero il garante a tutto tondo di Forza Italia, allora per Meloni non si tratterebbe solo di tenere unita la coalizione, ma di riconoscere che l’egemonia non è più scontata. Il punto non è perdere Palazzo Chigi. Il punto è perdere la centralità. Il centrodestra che improvvisamente non è più uno spazio a trazione unica. E Meloni, che pur non avendo un vero antagonista interno, rischia di perdere influenza anche senza perdere potere. Se nuove voci cominciano a risuonare nel perimetro che sembrava blindato, la narrazione della “leader invincibile” entra in una fase in cui “tutto è possibile”. Ecco allora che Meloni non può più comportarsi come se gli alleati fossero solo scudieri. Deve fare i conti con la possibilità – concreta – che qualcuno possa sfidarla nello stesso campo, da dentro, con toni diversi ma con lo stesso elettorato. E in quello spazio – il centrodestra moderato – il fascino berlusconiano pesa ancora tanto. Se a tutto questo aggiungiamo l’incerta partita delle Regionali, l’ambizione di Fratelli d’Italia di portarsi a casa il Veneto e la tentazione di Zaia di costruire una lista autonoma, è facile intuire che la stagione della leadership unica potrebbe essere arrivata al suo picco massimo. Meloni ha ancora forza, ancora centralità. Ma la sensazione è che ora dovrà iniziare a gestire il potere, non solo a esercitarlo. E dovrà farlo in un contesto in cui il campo non è più solo suo, ma potenzialmente contendibile. Il tempo della “solitudine al potere” potrebbe essere vicino al suo esaurimento. Perché quando certi cognomi ritornano, non riportano solo una storia: riaprono una partita. E in politica, ogni partita riaperta è una sfida all’ordine che sembrava già scritto.

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