Io si, tu no. La guerra infinita Tra Meloni e Macron

Fino a metà giornata era andato tutto bene. Edi Rama inginocchiato che nomina Meloni protettrice dell’Albania, un rapido confronto con Von der Leyen: tutto sembrava "filare liscio". Ma è alla fine della sessione plenaria che le nuvole di pioggia che insistono su Tirana assumono anche le sembianze di una tempesta politica e diplomatica. Macron, Merz, Starmer e Tusk si riuniscono con Zelensky. Contemporaneamente, in Turchia si sta per concludere il primo tavolo negoziale tra Russia e Ucraina. I “volenterosi” vogliono tirare le somme a caldo e, poco dopo, chiamano anche il presidente americano Donald Trump, che a bordo dell’Air Force One sta tornando a casa dopo il viaggio nei Paesi arabi. In tutto questo mancano una persona e un Paese: Giorgia Meloni e l’Italia. Per il nostro Paese non arriva nessun invito. Nessun coinvolgimento. Neppure un debrief che Zelensky affida ai social, con un post che di fatto comunica l’avvenuto vertice. Qualcosa di simile era accaduto sette giorni prima. Francia, Germania, Polonia e Regno Unito vanno a Kiev. L’Italia decide di non andare e si collega in video. Ma quella volta la chiamata era arrivata. Stavolta no. Ecco perché si capisce subito che non siamo di fronte a un banale sgarbo, ma a una frattura che viene da lontano e che non si è mai riusciti a ricomporre. Le origini sembrano affondare in una scintilla mai scoccata tra Macron e Meloni: le prime divergenze sui migranti, la vicinanza del primo alle politiche e alla figura di Draghi, la diffidenza verso quella che considera una “Le Pen italiana” da arginare. A Roma non la pensano molto diversamente, le definizioni su Macron si sprecano: “Un piccolo Napoleone, eccesso di protagonismo, elitario, troppo snob”. Nel corso di questi tre anni si è provato in più modi a recuperare, ma senza successo. Il problema è che ora la vicenda non è più una cosa a due. Non è più Macron contro Meloni e viceversa. Sono Macron, Starmer, Merz che si muovono con Zelensky e si sentono con Trump senza Meloni. Senza che nessuno di questo gruppo che unisce Europa, Ucraina e Stati Uniti senta il bisogno o il dovere di chiamare anche Roma. La conferma che il problema non è più solo il rapporto sfilacciato tra Chigi e l’Eliseo, ma una scelta dettata anche da altri fattori. Probabilmente l’errore da parte di Meloni è stato non aver compreso che quello che veniva bollato come semplice attivismo macroniano era in realtà un vero lavoro di politica estera che usciva dai confini francesi. In seconda battuta, non voler riconoscere che, quando la situazione si fa complessa, il “peso specifico” dei singoli Paesi ha un valore che nessun rapporto personale può compensare. Meloni ha investito su Trump e ha costruito una relazione ottima. Ma lo stesso Trump non può prescindere da una cooperazione stretta con Paesi che siedono nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che dispongono di deterrenza nucleare, che sono in grado di assumersi impegni — anche militari — che l’Italia non può permettersi. Ed è probabilmente la mancata accettazione di questa fisiologica gerarchia di pesi e potenze che ha rafforzato Macron e i volenterosi. Dire che “i volenterosi lavorano per mandare truppe in Ucraina” e per questo non andiamo, non sembra poi essere una spiegazione sufficientemente convincente. Dimenticandosi che questa è solo una delle opzioni sul tavolo, da mettere in campo in accordo con gli USA, con sfumature che nulla hanno a che vedere con la narrazione di un esercito europeo in prima linea di combattimento. Motivo per cui la Polonia — che, come l’Italia, ha sempre detto no agli uomini sul campo — e la Germania — molto cauta sul tema — fanno parte del gruppo. Anche a Tirana Meloni si è trincerata dietro il no all’invio di truppe, presentandosi davanti alle telecamere col viso tirato e segnato da rabbia e frustrazione. Dando a Macron la possibilità di replicare che con Trump si era parlato di tutto, tranne che di questo. Addirittura accusandola di promuovere fake news, alla pari dei nemici russi. Un’esagerazione che si poteva evitare, ma che dà il segno e il senso di quanto le divergenze siano diventate profonde. Che effetto avrà tutto questo è difficile da prevedere. Le chances che l’Italia rientri nel gruppo sembrano minime, perché servirebbe una marcia indietro rispetto a quanto detto fino ad oggi che non sarebbe facile da calibrare. Ma al tempo stesso rimanerne fuori è impossibile, soprattutto adesso che i “volenterosi” si muovono in coordinamento con Trump. Ecco allora che, se non si trova un punto di equilibrio, il rischio è che si realizzi lo scenario peggiore: un’Italia che attacca, ma che alla fine si aggrega. Senza poter incidere nelle decisioni che si prenderanno. Ed è allora meglio sperare che — nonostante le parole e le esagerazioni di questi mesi — si lavori affinché tutti abbassino i toni, si ritrovi uno spirito vero di cooperazione, mettendo da parte gli istinti personali. Nel rispetto di pesi e potenze che non dipendono da slogan e orgoglio.

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