Il governo Draghi tra valore reale e valore percepito

Politica

Francesco Giorgino, LUISS SCHOOL OF GOVERNMENT

mario draghi governo ansa

Pragmatismo e forte radicamento alla fattualità dei provvedimenti varati, sobrietà nell’uso dei codici autorappresentativi, capacità di sintesi tra diversi format comunicativi, tendenza alla verticalizzazione nella creazione/distribuzione dei messaggi: sono alcuni degli elementi che caratterizzano la comunicazione del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e del suo governo. 

Il problema principale della comunicazione e del marketing politico è quello della ricerca di un equilibrio dinamico tra due esigenze contrapposte. Da un lato l‘esigenza di evitare che il valore reale di un’istituzione o di un partito sia di parecchio superiore a quello percepito, poiché ciò certificherebbe il fallimento pressoché totale delle strategie di autorappresentazione e di rappresentazione di un Brand da parte del sistema mediale. Dall’altro l’esigenza di evitare che il valore percepito superi di gran lunga quello reale poiché in questo caso assisteremmo al primato della dimensione fenomenologica rispetto a quella ontologica con tutte le conseguenze che uno scenario di tale natura comporta in ordine alla creazione e alla gestione dell’interlocuzione sistemica che si sviluppa tra istituzioni politiche, istituzioni mediali e cittadini. Detto in altri termini, un conto è la realtà così com’è, un altro è la realtà così come viene rappresentata e quindi così come viene percepita da parte dei cittadini. Occorre muoversi tra i due estremi, nella consapevolezza della presenza anche di posizioni mediane, certamente le più auspicabili.

 

I tratti della comunicazione di Draghi e del suo governo 

La comunicazione di Mario Draghi e quella del suo governo si connotano per la presenza dei seguenti elementi:

1. pragmatismo e forte radicamento alla fattualità dei provvedimenti varati più che alle intenzioni annunciate attraverso interviste, partecipazioni a talk show, indiscrezioni fatte filtrare dai retroscenisti, dovendo esse, fin da subito, innescare la percezione nel Paese di un radicale cambio di passo;

2. sobrietà nell’uso dei codici autorappresentativi secondo uno schema capace di valorizzare molto di più l’essenza della comunicazione istituzionale che le caratteristiche della comunicazione politica, per sua natura divisiva, polarizzante, enfatica, presentista, emozionale;

3. capacità di sintesi tra i diversi format comunicativi, ovvero quello legato alla persona-premier, quello dei ministri tecnici del suo governo, quello dei ministri politici ed infine quello dei leader dei partiti che fanno parte della maggioranza;

4. tendenza alla verticalizzazione nell’attività di creazione e distribuzione dei messaggi, in linea peraltro con la propensione ad accentrare su di sé o su soggetti di propria fiducia i processi decisionali, in base all’esigenza – giudicata improrogabile – di non disperdere l’agire deliberativo e di restituire l’immagine di governo coeso e che parla un’unica lingua, quella del problem solving e del superamento delle tre emergenze pandemiche: sanitaria, economica e sociale. Si tratta di elementi visibili ad occhio nudo già nella fase iniziale del governo Draghi quando, cioè, a tanti studiosi e giornalisti apparvero subito situazioni di discontinuità totale nell’elaborazione delle strategie di comunicazione almeno rispetto alle esperienze pregresse.

A distanza di quasi quattro mesi dal conferimento dell’incarico a Draghi, tutti questi elementi risultano essere la base per l’elaborazione di un modello teorico-empirico al quale potremmo dare il nome, giocando semanticamente, di “ComunicAzione”, volendo sottolineare, appunto, la componente fattiva e pragmatica e la dimensione conativa, ovvero quella degli effetti. L’agire comunicativo è al servizio dell’agire deliberativo e non viceversa, secondo una sequenza che crea una logica di flusso tra la fase della programmazione, quella della decisione e quella della spiegazione/illustrazione/divulgazione ai cittadini dei provvedimenti varati dal Consiglio dei Ministri. È questo il motivo per il quale il governo Draghi non sembra ricercare forme d’interlocuzione privilegiata con pubblici selezionati preventivamente secondo le logiche del marketing politico, quanto piuttosto dialoghi con opinioni pubbliche nazionali e internazionali. Le prime in attesa di uscire dalla fase emergenziale e dalla crisi economica, cominciata già nel 2008 e dannosa soprattutto per il ceto medio. Le seconde impegnate a scorgere l’orizzonte del Vecchio Continente in un momento di grande trasformazione, a causa dei cambiamenti politici che potrebbero avvenire in Germania e Francia.

La credibilità di Draghi sul piano internazionale 

Si è detto che il cambio di approccio della comunicazione (ma è un cambio anche “politico” almeno nel senso di policy, più che in quello di politics) è agevolato da due circostanze. La prima: il carattere riservato, ma determinato, di Mario Draghi e la sua reputazione nazionale e internazionale di “uomo del fare” e non certo di “uomo del dire”, di uomo cioè che sa osare e che sa assumersi le proprie responsabilità. La seconda: il fatto che l’attuale Presidente del Consiglio non abbia bisogno di misurarsi con il consenso degli elettori, dovendo tutt’al più avere a che a fare con quello dei partiti presenti nell’attuale Parlamento, al quale spetta – non dimentichiamolo – il compito di eleggere il prossimo Capo dello Stato. Tutto questo è vero, ma non si sottovalutino né il contesto nel quale questo governo si muove, né la posta in palio per sé e per il Paese.

Nel rapporto con le istituzioni europee, chiamate a vigilare sulla efficacia delle riforme del PNRR e sul timing della loro realizzazione, un ruolo non secondario lo gioca la credibilità personale di Draghi, la quale si salda continuamente e reiteratamente a quella del suo governo. Le due “percezioni” non sono in alcun modo separabili. Circostanza quest’ultima che spiega perché, anche sul versante della comunicazione e pur nell’effervescenza delle dichiarazioni quotidiane dei leader politici (a volte in forte contrapposizione le une con le altre), si registri il tentativo di generare una Brand image dell’Esecutivo frutto più che altro della Personal Brand Identity di Draghi.

Negli ultimi giorni abbiamo potuto far esperienza di questa impostazione, rilevante per metodo e merito, in diverse occasioni:

1. la comunicazione dell’aumento esponenziale del numero dei vaccinati (almeno con la prima dose) attraverso una logica, quella della sfida a raggiungere tetti simbolici di somministrazioni giornaliere, che ha favorito la compartecipazione dei cittadini, trasformando la finalità da perseguire prima e meglio possibile da obiettivo della sola struttura commissariale dell’emergenza pandemica ad obiettivo di tutti;

2. la gradualità delle misure anti-contagio con l’elaborazione di un paradigma risultato vincente e convincente, quello cioè del “rischio calcolato”, anche perché sottoponibile a processi di falsificazione popperiana grazie ad un deciso miglioramento dell’utilizzo dei parametri quantitativi e qualitativi nella fase della trasmissione dei dati all’opinione pubblica;

3. Il decreto Sostegni bis per immettere liquidità a favore delle categorie economicamente e socialmente più a rischio, operando anche attraverso la categoria della “certezza” degli interventi;

4. la creazione di una cabina di regia a Palazzo Chigi per la gestione del Recovery Plan con l’intento di assicurare omogeneità amministrativa, pur in presenza di una consistente eterogeneità politica, evitando dispersione e ritardi;

5. Il decreto Semplificazioni, che rappresenta – anche per l’impegno profuso dal Ministro Brunetta (uno dei membri del governo più in sintonia con Draghi) – un autentico punto di svolta rispetto alla prospettiva di una percezione generale della Pubblica Amministrazione realmente in grado di restituire fiducia all’operato dell’esecutivo. A tal fine, pesa molto la diminuzione del numero di contagi, di quello dei ricoveri ospedalieri e in terapia intensiva, di quello dei decessi. Pesa il ritorno in zona gialla dell’intero territorio nazionale e in zona bianca di una parte di esso. È evidente che tra il governo Draghi e gli italiani è stato siglato un patto tacito, le cui fondamenta sono rappresentate da fiducia, credibilità, speranza che davvero questa volta l’Italia possa cambiar pelle, recidere definitivamente i legami con le pratiche disinvolte del passato, le quali hanno portato solo incremento del debito cattivo inducendo tanti decisori pubblici a prescindere dalla cultura degli investimenti infrastrutturali.

 

Il traghettamento dell'Italia dal presente al futuro 

 

Il clima d’opinione aiuta Draghi in questa operazione di traghettamento dell’Italia dal presente al futuro, così come definito dal Next Generation Eu.

Aiuta anche l’atteggiamento non ostile della stragrande maggioranza dei quotidiani e dei telegiornali: non dimentichiamoci che uno degli elementi connotativi della media logic è quello di alimentare narrazioni intorno a “salvatori della patria”, a soggetti rappresentati volutamente con le sembianze dell’eroe (o del supereroe) che supera i numerosi ostacoli presenti sul proprio cammino. In fondo, è una dinamica psico-sociologica. Più si conferisce credibilità ad un progetto, più si coltiva la sensazione che quel progetto stia funzionando, al netto della possibilità (al momento solo di scuola, in verità) che subentrino i prodromi della delusione. La quale altro non è che un calcolo errato di aspettative.

In definitiva, si può sostenere che il governo Draghi vada avanti spedito nel perseguimento dei propri fini. E ciò avviene nonostante le profonde differenze identitarie tra i partiti che compongono l’attuale maggioranza di governo, nonostante la necessità da parte di ciascuno di essi di massimizzare, per il tramite della comunicazione, i risultati ottenuti anche per far fronte alla competizione con l’unica grande forza politica rimasta all’opposizione (il discorso vale per i partiti di centrodestra ed in particolare per la Lega), nonostante la diaspora interna a Forza Italia, nonostante il Movimento Cinque Stelle stia vivendo una crisi di posizionamento e di leadership (ben visibile con la concorrenza interna tra Di Maio e Conte) e nonostante le difficoltà incontrate dal Pd nella costruzione della propria agenda politica, alla ricerca di pertugi della sfera pubblica nei quali coltivare disegni di visibilità e rappresentanza.

Il risultato è quello di un allineamento tra il valore reale e il valore percepito del governo Draghi e del presidente del Consiglio Mario Draghi. Allineamento che colloca nella giusta dimensione la comunicazione istituzionale, mai considerata un fine, ma solo uno strumento attraverso il quale agire reiteratamente, nella consapevolezza che l’accountability non significa dittatura del mercato e dipendenza della politica dalla volontà elettorale, ma più semplicemente rispetto degli impegni presi con sano realismo e senza indugiare nelle illusioni pirotecniche della iper-rappresentazione. È questo il senso più importante della svolta in atto. Una svolta reale, oltre che percepita.

 

Ipotesi sulla seconda fase

Una volta maturata questa consapevolezza, si genera quasi automaticamente una riflessione in ordine ad un’ipotetica “seconda fase” nella quale l’uso del solo capitale reputazionale di Draghi, sebbene alimentato dai risultati ottenuti fin qui, potrebbe non bastare per non inficiare la luna di miele in corso con l’Italia, certificata anche dagli ultimi sondaggi. Si tratta di una fase nella quale, cioè, mettere in conto anche che si possa ridimensionare quella spinta dettata dal conferimento preventivo di fiducia. Situazione che renderebbe necessaria una trasformazione più politica della figura del presidente del Consiglio tecnico. In che senso? Non certo nel senso della trasformazione di Draghi in soggetto partitico, quanto nel senso di una maggiore propensione della sua figura a dotarsi nel discorso pubblico di una connotazione più politico-istituzionale che meramente istituzionale. È ben possibile che giunga il momento, insomma, nel quale i risultati dell’azione di governo non siano più in grado di comunicare “da soli”, e pur senza uscire dal suo ambito tecnico, l’esecutivo e il suo leader si trovino nelle condizioni di dover costruire un rapporto più stretto e diretto col Paese.       

Estrapolando altre considerazioni dal ragionamento fatto finora, è ipotizzabile che la strategia comunicativa di Draghi sia destinata a evolvere in seconda battuta in una sorta di “operazione cittadinanza”. Che potrebbe ad esempio puntare ai giovani, categoria alla quale è affidato il compito di rendere il PNRR non un’enunciazione di principi ma la grande occasione per un nuovo rinascimento economico, sociale, culturale, ambientale e alla quale è del resto esplicitamente diretto il Next Generation EU Tale strategia potrebbe passare inoltre per un dialogo più stretto e diretto, sul territorio, fra il capo del governo e il mondo del lavoro e della produzione. E potrebbe infine tradursi in un uso sempre moderato e misurato ma più frequente e intenso del mezzo televisivo, finora trascurato dal Presidente del Consiglio.

Finora la discontinuità non soltanto politica ma comunicativa introdotta dal governo Draghi è stata ben accolta dal Paese, soprattutto perché si è coniugata con risultati importanti, in primis in relazione alla campagna vaccinale. Sul medio periodo, però, il problema del dialogo col Paese non può che porsi anche per un governo tecnico. Una certa dose di politicità, in senso lato, non può mancare anche nella dimensione più algidamente istituzionale. Sarà estremamente interessante osservare nei prossimi mesi in quale direzione il governo Draghi si muoverà anche da un punto di vista comunicativo.

Politica: I più letti