Nel saggio “Bisogna saper perdere” Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra raccontano con retroscena e aneddoti le disfatte dei leader di partito. Dimostrando anche coi numeri come nel nostro Paese la sconfitta non porta quasi mai a un ricambio. ANTICIPAZIONE E BOOKTRAILER
I tre presidenti del Consiglio che hanno governato più lungamente l’Italia repubblicana sono stati Silvio Berlusconi (3.336 giorni), Giulio Andreotti (2.679) e Alcide De Gasperi (2.548). Se si considera il tempo trascorso a Palazzo Chigi, il dato sembra in linea con le altre democrazie europee. Anzi, persino più basso: la Francia, per esempio, è stata guidata da François Mitterrand per 14 anni, appena sei mesi in più di quelli trascorsi dallo spagnolo Felipe González nel palazzo della Moncloa. Quattordici anni esatti al governo, li ha passati anche il tedesco Konrad Adenauer, 12 Helmut Kohl (che pure aveva iniziato la sua carriera da leader con una sconfitta); un dato che, prevedibilmente, sarà presto eguagliato da Angela Merkel, in carica dal 2005.
Accade più o meno lo stesso Oltremanica, dove la conservatrice Margaret Thatcher e il laburista Tony Blair sono rimasti a Downing street rispettivamente per 11 e 10 anni. Ma attenzione: in tutti questi casi, i leader politici hanno guidato il loro Paese ininterrottamente e soprattutto, dopo l’esperienza di governo, si sono quasi sempre ritirati dalla scena pubblica.
Il confronto con gli altri Paesi europei - Un dettaglio non di poco conto, che nel nostro caso fa la differenza. Se si prende in esame l’arco di tempo nel quale si sono svolte le attività di governo dei principali leader, il confronto tra l’Italia e le altre democrazie occidentali cambia radicalmente, trasformando il nostro Paese in un unicum, o quasi.
A eccezione di De Gasperi, che ha governato ininterrottamente attraverso otto esecutivi nell’immediato dopoguerra, gli altri presidenti del Consiglio italiani più longevi hanno infatti occupato Palazzo Chigi in modo intermittente, anche a distanza di uno o più decenni.
Qualche esempio. I poco più di 9 anni di governo Berlusconi si sono sviluppati lungo 17 anni e 6 campagne elettorali, in cui le tre vittorie del centro-destra (1994, 2001 e 2008) si sono alternate ad altrettante sconfitte (1996, 2006, 2013), senza che ciò provocasse un cambiamento di leadership nel partito di maggioranza relativa. Numeri simili, se non più significativi, si trovano nei decenni scorsi. I 2.679 giorni dei governi Andreotti si sono dispiegati in 20 anni, dal 1972 al 1992. E così è accaduto anche per quasi tutti gli altri presidenti più longevi: da Aldo Moro (2.247 giorni, tra il 1963 e il 1976) ad Amintore Fanfani (che ha addirittura «diluito» i 1.652 giorni alla guida del Paese in 33 anni, dal 1954 al 1987), fino – ed è storia recente – a Romano Prodi (1.608 giorni, tra il 1996 e il 2008).
I ritorni all’estero? Si contano sulle dita di una mano - Situazioni simili, nelle principali democrazie occidentali, si contano sulle dita di una mano. Dal dopoguerra a oggi, in Germania e in Spagna un ritorno in carica di un cancelliere o un primo ministro non è mai accaduto; lo stesso per le presidenziali degli Stati Uniti (dove, al di là del limite dei due mandati, i rientri hanno semmai preso la forma di dinastie familiari, dai Kennedy ai Bush, fino ai Clinton); in Gran Bretagna il coming-back è avvenuto solo con Winston Churchill e Harold Wilson, tornati però a Downing street dopo non più di sei anni dal loro ultimo incarico. Lo stesso è accaduto in Danimarca, dove solo Hans Hedtoft, Anker Jørgensen e più recentemente Lars Løkke Rasmussen sono stati battuti e sono tornati al potere, ma sempre a distanza di non più di sei anni.
Le due eccezioni più vistose arrivano dalla Francia: Charles de Gaulle (capo di governo dal 1944 al 1946 e poi dal 1958 al 1959 prima di diventare in quell’anno presidente della repubblica) e Jacques Chirac (alla guida dell’esecutivo dal 1974 al 1976 e poi dal 1986 al 1988, prima di ricoprire il ruolo di presidente della repubblica dal 1995 al 2007). Ma sono, appunto, delle eccezioni: Oltralpe, gli altri primi ministri a cui è toccato di governare a intervalli (Henri Queuille, René Pleven, Edgar Faure) hanno avviato il loro bis a distanza di non più di cinque anni dalla fine del precedente mandato.
Solo da noi i Consigli dei ministri con tanti ex premier - In Italia, invece, se il ricambio al -vertice di governo è avvenuto in modo molto più frenetico degli altri Paesi occidentali, non ha tuttavia quasi mai segnato – ed è qui la differenza principale – la fine della carriera di un politico né tanto meno ne ha ostacolato il ritorno a un incarico di primo piano.
Con risultati inimmaginabili in altri Paesi. All’interno dell’ultimo governo Moro (1974-76), per esempio, sedevano in Consiglio dei ministri altri tre ex presidenti (Giulio Andreotti, Emilio Colombo e Mariano Rumor), mentre un altro (il dc Amintore Fanfani) ricopriva la carica di segretario del partito di maggioranza relativa.
Copione puntualmente replicato negli anni Ottanta, coi due governi Craxi (ministri ed ex presidenti: Andreotti, Arnaldo Forlani e Giovanni Spadolini) e con gli esecutivi Goria e De Mita (in entrambi casi, Andreotti, Fanfani e Colombo).
L’alternanza ipnotica tra Berlusconi e Prodi - La seconda repubblica non ha modificato lo schema. Gli esempi anche qui non mancano. Oltre all’ipnotica alternanza Berlusconi-Prodi-Berlusconi-Prodi-Berlusconi, nel Consiglio dei ministri dell’ultimo esecutivo del Professore (2006-08), sedevano altri due ex capi di governo (Giuliano Amato e Massimo D’Alema) e insieme a loro c’era anche Francesco Rutelli, candidato di centro-sinistra sconfitto alle elezioni di cinque anni prima dal leader di centro-destra.
Fin qui, i numeri. Stando alle dichiarazioni, le cose invece potrebbero presto cambiare. L’attuale presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha garantito che quello a Palazzo Chigi sarà il suo ultimo incarico pubblico. «Non sono un politico vecchia maniera che resta attaccato alla poltrona», ha più volte detto, aggiungendo che, comunque andranno le cose, riterrà conclusa la sua esperienza politica nel 2023, nove anni dopo l’inizio del suo primo governo. L’annuncio, come abbiamo raccontato in questo libro, non è inedito. Ma, se dovesse trovare riscontro nella prassi, rappresenterebbe una netta soluzione di continuità rispetto al passato. Allineando l’Italia agli altri Paesi europei. E attribuendo finalmente alla sconfitta e all’uscita di scena in politica il ruolo fisiologico che riveste nelle altre democrazie occidentali. Vedremo.
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Tratto dal libro di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra “Bisogna saper perdere. Sconfitte, congiure e tradimenti in politica da De Gasperi a Renzi”, Bollati Boringhieri, pp. 162, euro 12
Filippo Maria Battaglia (Palermo, 1984), giornalista di «Sky TG24», vive a Milano. Ha scritto tra l’altro per le pagine culturali di «Panorama», «Il Foglio», «Il Giornale» e del dorso siciliano di «Repubblica». Con questa casa editrice ha pubblicato: Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (2015) e Lei non sa chi ero io! La nascita della Casta in Italia (2014). È inoltre autore di: A sua insaputa. Autobiografia non autorizzata della seconda repubblica (con A. Giuffrè, 2013), I sommersi e i dannati. La scrittura dispersa e dimenticata nel ’900 italiano (2013). Ha curato diverse antologie giornalistiche, tra cui Scusi, lei si sente italiano? (con P. Di Paolo, 20103) e Professione reporter. Il giornalismo d’inchiesta nell’Italia del dopoguerra (con B. Benvenuto, 2008).
Paolo Volterra (Roma, 1966), è capo della redazione politica di «Sky TG24», dove lavora dal 2003. È autore con Max Giannantoni di L’operazione criminale che ha terrorizzato l'Italia. Storia della Falange Armata (2014) e del reportage storico tv I giorni di Mani Pulite (2015). Ha studiato storia e giornalismo. È sposato e ha due figli.