Traditori e pentimenti. Quando un sol voto decide il governo

Politica
E' il 24 gennaio 2008. Al Senato si vota alla fiducia al governo Prodi. Il deputato Nuccio Cusumano (Udeur) annuncia il suo sì e il compagno di partito Tommaso Barbato (nella foto) lo insulta. Cusumano, per reazione, sviene
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Silvio Liotta, passato da Forza Italia al centrosinistra, segnò il destino del primo governo Prodi, prima di far ritorno al centrodestra. Sei senatori determinarono le sorti del secondo esecutivo del professore. I precedenti del voto di martedì

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di Serenella Mattera


Chi si incaricherà questa volta del voto decisivo? Un finiano pentito, un transfuga dal Pd o dall’Idv, un centrista sulla via del Pdl? La domanda resterà sospesa nell’aria fino a martedì 14 dicembre, quando i deputati sfileranno sotto il banco della presidenza della Camera per pronunciare il loro sì o no all’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Ma non è certo la prima volta che le sorti di un governo della Seconda Repubblica vengono definite in un finale al cardiopalmo, segnato da cambi di casacca, passaggi al gruppo misto, pentimenti e redenzioni. Ancora fresco è il ricordo dei sei voti che al Senato decretarono la fine del Prodi II. Ma ancora peggio andò al Prodi I: affossato dal voto di un uomo solo, Silvio Liotta, e dalla sua decisione di tornare al centrodestra: da lì era venuto solo un anno prima.

E’ il 1998, il 9 ottobre. Fausto Bertinotti e con lui 11 deputati di Rifondazione comunista decidono di far mancare la fiducia all’esecutivo guidato da Romano Prodi sulla finanziaria. Manca in Aula Irene Pivetti, già passata dalla Lega a Rinnovamento italiano, di Lamberto Dini: è a Milano ad allattare la figlia appena nata. Un’altra donna, Tiziana Valpiana, del Prc, attende fino alla seconda ‘chiama’ (l’appello con cui i parlamentari vengono chiamati a esprimere il loro voto palese, ndr) per dire “no” al governo come Bertinotti. Ma il vero protagonista della giornata è Silvio Liotta, deputato siciliano, arrivato nel 1994 in Parlamento con Silvio Berlusconi e passato con Dini (e quindi nella maggioranza di centrosinistra) nel 1997, sotto il governo Prodi. Ebbene, il 9 novembre del ’98, nel giorno del suo 63esimo compleanno, Liotta annuncia in Aula la sua sfiducia al premier. Dini lo espelle dal partito, ma la sorte del Prodi I è ormai segnata: il voto del deputato siciliano fa prevalere i "no", 313 a 312.

Cosa ha convinto Liotta? Nessun accenno a compravendite di sorta, in quei giorni (anche se si contano 74 cambi di casacca solo alla Camera, dalle elezioni del '96). Nell’esecutivo “si rafforza la componente di sinistra”, spiega lui. E anche se i retroscena parlamentari parlano di una lunga telefonata con Berlusconi alla vigilia del voto, il deputato nega di voler tornare nelle fila azzurre e infatti, dopo una breve permanenza al gruppo Misto, il 19 ottobre passa alla Ccd di Pier Ferdinando Casini. Ad ogni modo, a Liotta arrivano i complimenti del Cavaliere (“mi ha detto: ‘hai avuto coraggio, sei stato capace in un’impresa che non erano riusciti a compiere i tre partiti del Polo’”) e gli insulti degli ex colleghi del centrosinistra (“mi hanno dato del traditore”).

Intanto passano gli anni, ma non il destino di Romano Prodi. A gennaio del 2008, dopo due anni di fiducie ottenute sul filo di lana, il Professore vede prevalere di misura i “no” al Senato (161, contro 156 "sì") e torna a casa. Sei i “traditori” o gli “eroi”, a seconda dei punti di vista: Mastella, Barbato, Dini, Scalera, Fisichella e Turigliatto.

E’ Clemente Mastella ad aprire la crisi di governo, dopo essere stato travolto dalle inchieste giudiziarie: con lui vota contro il governo Tommaso Barbato, dell’Udeur. Un terzo senatore udeur, Nuccio Cusumano (un passato nella Margherita), decide di continuare a sostenere Prodi (aderirà al Pd) e viene per questo attaccato duramente in Aula da Barbato: volano insulti e Cusumano sviene. Anche Lamberto Dini, eletto con la Margherita, poi a capo del nuovo partito dei Liberaldemocratici, dice “no” alla fiducia. L’altro liberaldemocratico, Giuseppe Scalera, decide di astenersi, ma al Senato l’astensione ha gli stessi effetti di un voto contrario. Ancora, pronuncia il suo “no” Domenico Fisichella, proveniente da An, eletto dalla Margherita e uscito dal gruppo dell’Ulivo alla nascita del Pd. E infine il trotzkista Franco Turigliatto, fondatore della Sinistra critica dopo essere uscito dal Prc.

Pentimento e redenzione, invece, per altri due dissidenti, Willer Bordon e Roberto Manzione, dell’Unione democratica. Così come un altro dissidente di sinistra, Fernando Rossi, che nei mesi precedenti aveva dato non poco filo da torcere al governo sulla politica estera. Tutti loro alla fine dicono "sì" a Prodi. Ma i loro voti non bastano a salvarlo.

E martedì 14 dicembre? Potrebbe bastare, per la sopravvivenza del Berlusconi IV, il ripensamento di qualche finiano. Mentre sul fronte opposto anche solo la presenza di tutte le tre partorienti Federica Mogherini del Pd, e Giulia Bongiorno e Giulia Cosenza di Fli, potrebbero dare man forte ai "no". Ma oggi chi può dire: questa storia è ancora tutta da scrivere.

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