IL LIBRO DELLA SETTIMANA “Verso casa” di Assaf Inbaari (Giuntina) ricostruisce le vicende della comunità israeliana di Beth Afikim, dalla diaspora fino alla sua inevitabile implosione con l’arrivo delle privatizzazioni
Questo libro è una storia di un’utopia, una delle più ostinate utopie del Novecento. È un’utopia semplice e ardita: riguarda una generazione di ebrei ventenni, perlopiù russi, nati agli inizi del secolo scorso, che decide di lasciare i ghetti per migrare nella Palestina sotto mandato britannico. Questi ventenni non cercano una casa, inseguono piuttosto un sogno di rinascita, la fondazione di un nuovo mondo basato sugli ideali di giustizia e di socialismo.
L’utopia del kibbutz, la comunità israeliana nata su base volontaria e imperniata sul concetto di proprietà collettiva, nasce da qui. Ed è attorno a questa utopia che Assaf Inbaar ha imbastito un romanzo, “Verso casa”, ora portato in Italia da Giuntina per le cure di Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi (pp. 342, euro 18).
Una grande occasione
Inbaar è nato e vissuto fino a vent’anni nel kibbutz Beth Afikim e di questo kibbutz racconta la storia quasi secolare. Per farlo, riavvolge il nastro fino alla Russia degli anni Venti per passare poi all’approdo in Palestina, alla fatica e all’ostinazione sorda di un gruppo di temerari, fino al crollo e all’implosione di quel sogno colletivista dopo l'irruzione delle privatizzazioni, preannunciato dall’arrivo delle televisioni e delle macchine fotografiche.
In Israele il romanzo di Inbaar ha fatto spellare le mani a critici, a politici (Shimon Peres), a grandi scrittori (il compianto Amos Oz). Per noi europei è una grande occasione: quella di comprendere cosa è stato questo sogno fatto di determinazione e integralismo e quanto questo stesso sogno abbia inciso nella formazione dell’identità e poi della trasformazione dell’anima israeliana.
Un’illusione che ha fatto la storia
“Verso casa” è un romanzo densissimo, dettagliato, unilaterale, che si valorizza nella testimonianza di una comunità, ma che risplende soprattutto nel racconto di un’evoluzione: quella di un’utopia che, proprio nel momento in cui sembra diventare reale, si sgretola impietosamente in un sogno illusorio: “Siamo emigrati da soli. Senza niente. E non c’era niente qui. Non c’era nessuno qui a cui chiedere, nessuno con cui lamentarsi. Abbiamo fatto da soli. Non sapevamo niente di agricoltura, o di una fabbrica, o di giardini, niente di niente”.
E anche se è innegabile che quel niente, dopo qualche decennio, si è inevitabilmente rivelato un’utopia (quantomeno nella sua concezione originaria), è altrettanto certo che nel frattempo ha contribuito a fare la storia.