Rock & Wall, 19 giugno 1988: la guerra fredda dei concerti

Mondo

Nicola Ghittoni

Cinque date, cinque concerti, cinque storie nella cornice della grande Storia. Un viaggio tra le note che hanno fatto da colonna sonora ai sogni, alle speranze e alle battaglie di una generazione cresciuta all’ombra del Muro. Capitolo quarto

Podcast Sky Tg24 in collaborazione con Radio 24 - Il Sole 24 Ore

Passa un anno e la città di Berlino diventa un vero e proprio ring. La DDR vuole dimostrare di aver imparato la lezione e raccoglie il guanto(ne) di sfida. Sembra di essere in “Rocky IV”: Ovest contro Est, Balboa contro Ivan Drago. Solo che stavolta i rivali non si scambiano cazzotti, ma riff di chitarra elettrica e micidiali sequenze basso-batteria. Un passo avanti non da poco. L’appuntamento è per metà giugno. Nell’angolo a sinistra (per chi guarda la cartina della città) la Repubblica Federale schiera i suoi campioni, e sono dei pesi massimi: Pink Floyd e Michael Jackson. Il trio inglese è nel pieno del primo tour senza Roger Waters, mentre il “re del pop” sta portando in giro per il mondo lo scintillante spettacolo del suo “Bad Tour”. Non si tratta solo di due fuoriclasse della musica, ma anche dei due artisti che prima e meglio di tutti hanno saputo trasformare le loro esibizioni in una magia di suoni, luci e coreografie. Gilmour e soci sono in programma la sera di giovedì 16, l’astronave di Jacko atterrerà domenica 19. Il tutto “nella splendida cornice” del Reichstag, davanti a una platea “gremita in ogni ordine di posti”, come si dice in questi casi.

Rocky, Rambo e…

Nell’angolo opposto, alla destra di chi guarda Berlino, c’è un pugile ferito: i colpi inferti dal concerto di David Bowie dell’anno prima bruciano ancora, ma servono anche da monito. In quelle cicatrici è scritta una lezione fondamentale: se non vuoi che il tuo pubblico si metta a tifare per l’avversario, devi dargli un campione da applaudire. Ma come si fa, in un Paese dove per esibirsi le band rock devono avere una licenza statale, e per ottenerla devono dimostrare di fare musica innocua, ovvero l’esatto contrario del rock? Non resta che arrendersi all’evidenza: se non puoi batterli, invitali. E così, nell’angolo rosso, direttamente da Barnwell, South Carolina, Mr.Dynamite in persona, James Brown! Con lui siamo davvero precipitati sul set di “Rocky IV”: nel film James Brown si presentava vestito a stelle strisce per beffeggiare lo sfidante sovietico, cantandogli in faccia la sua “Living in America” prima della fatale sfida con Apollo Creed. Con un ribaltamento spiazzante, la sera del 16 giugno invece salirà sul palco per far ballare i giovani figli del Patto di Varsavia. E se ve lo state chiedendo, beh, sì, anche a loro canterà “Living in America”. (Scherzi del destino: in quei giorni in città c’è anche Sylvester Stallone. Sta promuovendo il più che dimenticabile “Rambo III”, e non si fa mancare una visita al Museo del Checkpoint Charlie e qualche foto davanti al Muro). Chi schierare invece contro Michael Jackson? La scelta cade su un rocker in rapida ascesa, il canadese Bryan Adams. Negli ultimi anni ha guadagnato peso sulla scena musicale: non sarà della stessa categoria di Jacko, ma lo si può considerare un buon medio-massimo. Sette giorni prima dell’appuntamento berlinese si è esibito a Wembley sullo stesso palco di Sting, Phil Collins, Dire Straits, Eric Clapton, Peter Gabriel, nel mega-concerto per i 70 anni di Nelson Mandela. Insomma, è il meglio che si possa trovare in circolazione.

Rocky, Rambo e…

Nell’angolo opposto, alla destra di chi guarda Berlino, c’è un pugile ferito: i colpi inferti dal concerto di David Bowie dell’anno prima bruciano ancora, ma servono anche da monito. In quelle cicatrici è scritta una lezione fondamentale: se non vuoi che il tuo pubblico si metta a tifare per l’avversario, devi dargli un campione da applaudire. Ma come si fa, in un Paese dove per esibirsi le band rock devono avere una licenza statale, e per ottenerla devono dimostrare di fare musica innocua, ovvero l’esatto contrario del rock? Non resta che arrendersi all’evidenza: se non puoi batterli, invitali. E così, nell’angolo rosso, direttamente da Barnwell, South Carolina, Mr.Dynamite in persona, James Brown! Con lui siamo davvero precipitati sul set di “Rocky IV”: nel film James Brown si presentava vestito a stelle strisce per beffeggiare lo sfidante sovietico, cantandogli in faccia la sua “Living in America” prima della fatale sfida con Apollo Creed. Con un ribaltamento spiazzante, la sera del 16 giugno invece salirà sul palco per far ballare i giovani figli del Patto di Varsavia. E se ve lo state chiedendo, beh, sì, anche a loro canterà “Living in America”. (Scherzi del destino: in quei giorni in città c’è anche Sylvester Stallone. Sta promuovendo il più che dimenticabile “Rambo III”, e non si fa mancare una visita al Museo del Checkpoint Charlie e qualche foto davanti al Muro)

Chi schierare invece contro Michael Jackson? La scelta cade su un rocker in rapida ascesa, il canadese Bryan Adams. Negli ultimi anni ha guadagnato peso sulla scena musicale: non sarà della stessa categoria di Jacko, ma lo si può considerare un buon medio-massimo. Sette giorni prima dell’appuntamento berlinese si è esibito a Wembley sullo stesso palco di Sting, Phil Collins, Dire Straits, Eric Clapton, Peter Gabriel, nel mega-concerto per i 70 anni di Nelson Mandela. Insomma, è il meglio che si possa trovare in circolazione.

Sfida all’ultima nota

La posta in gioco è chiara: bisogna tenere lontani i giovani dell’Est da quel Muro. Lo sanno bene i responsabili della FDJ, la “Libera Gioventù Tedesca”, che hanno insistito per organizzare l’evento. La loro logica è inoppugnabile: Berlino Est è una pentola a pressione, quel che ribolle tra i giovani è destinato a esplodere se non si concede loro una valvola di sfogo. Quale? Tre giorni di musica con artisti occidentali. Dove? Anche in questo caso la lezione dell’anno precedente è stata mandata a memoria: il mini-festival si terrà lontano dal centro, nell’area del velodromo di Weissensee, a 9 chilometri dalla Porta di Brandeburgo.

Motto? “Fuer Atomawaffenfreien Zonen” e “Gegen Apartheid”. “Per le zone denuclearizzate” e “Contro l’apartheid”. Ecco, magari c’è un eccesso di zelo nel mettere nello stesso calderone due temi così diversi. Ma, anche se sfugge il nesso, l’obiettivo è chiaro: il concerto nasce per nobili finalità. Evviva. Ciliegina sulla torta? La madrina. E non una qualsiasi: a presentare gli artisti sul palco sarà la pattinatrice Katarina Witt. Per spiegare cosa rappresenti nella DDR del 1988 bastano tre lettere: è una dea. Ha appena messo a segno per la seconda volta una tripletta leggendaria: a gennaio campione d’Europa, a febbraio medaglia d’oro olimpica, a marzo campione del Mondo. È l’immagine di una nazione che vince, e lo fa con grazia ed eleganza, non con i muscoli sospetti delle sue colleghe dell’atletica leggera. Time Magazine l’ha appena definita “Il volto più bello del socialismo”.

Insomma, il ring è pronto, gli sfidanti sono schierati, si aspetta solo il suono della campanella. Ma prima di raccontarvi il match dobbiamo sfogliare a ritroso il nostro personalissimo cartellino. Perché la calda estate del 1988 ha un antipasto freddo. Ve lo serviamo subito.

Un Nobel, per la pace

Come vi avevamo anticipato, i primi artisti rock anglosassoni a esibirsi a Berlino Est sono i Barclay James Harvest: è il 14 luglio del 1987. Alla tastiera ritroviamo ancora Kevin McAlea, l’uomo che ha tradotto in inglese “99 Luftballons”. È la prima storica apertura della DDR dopo gli scontri al concerto di Bowie di giugno. Subito dopo, il 17 settembre, il colpaccio: è di scena Bob Dylan. In realtà le premesse sono malinconiche: si doveva esibire a Berlino Ovest, ma la prevendita è stata così fiacca da indurlo a rinunciare alla data e ad accettare l’invito della FDJ a suonare dall’altra parte del Muro. Gli organizzatori non rinunciano a dare un titolo alla serata: sarà il Friedenskonzert, il “Concerto per la pace” (non sia mai qualcuno pensi abbiano invitato un cantante americano solo per il gusto di ascoltare un po’ di musica…). Sul prato del Treptower Park accorrono in 80mila, sul palco con il futuro premio Nobel ci sono due complici d’eccezione. Il primo è Roger McGuinn, il chitarrista che negli anni ’60, con la sua 12 corde ha colorato di psichedelia le ballate di Dylan e le ha spacciate al pubblico hippy dei Byrds. L’altra spalla è un biondino capace di scrivere grandi pezzi rock, alla guida di una band molto affiatata: avesse più gusto per l’epica e una presenza più muscolare potrebbe rivaleggiare con Bruce Springsteen; ma ha i tratti dell’elfo e una voce tagliente. Si chiama Tom Petty, e alla fine di quel tour si unirà a Dylan nel supergruppo dei Travelling Wilburys.

I Barclay e Dylan sono due pionieri, ma se dobbiamo trovare una data d’inizio della “guerra fredda dei concerti” è il 7 marzo del 1988. C’è sempre lo zampino della Libera Gioventù Tedesca. Deve festeggiare un compleanno, il 42esimo: è nata infatti nel 1936, in clandestinità, sotto il nazismo. Ora invece è un pezzo importante dell’establishment, quello che più si sforza di svecchiare il regime per allungargli la vita. L’anniversario gli fornisce una nuova occasione: invitare non un santone del rock ma una band emergente, dal grande seguito giovanile e legata a Berlino da un amore ricambiato. I Depeche Mode hanno registrato i loro ultimi album nei gloriosi Hansa Studios, quelli con le finestre affacciate sul Muro. I loro suoni elettronici, nati della Meistersalle già culla di capolavori di Bowie, hanno ormai invaso l’Europa. Qui hanno iniziato a vestirsi di nero. La mente del gruppo, Martin Gore, ha anche deciso di fermarsi in città per viverci un paio d’anni. Scatta l’invito.

Black celebration

Ma chi si aspetta un lancio in grande stile è destinato a rimanere deluso: il concerto sembra quasi un appuntamento clandestino. Innanzitutto il biglietto: è un cartoncino con il motivo dell’evento (un compleanno), la data (lunedì 7 marzo), l’orario (presentatevi alle sei, si inizia alle sette), il luogo (la Werner-Seelenbinder-Halle). Piccolo particolare: nessuna traccia del nome della band (!). D’altronde, non è neanche corretto chiamarlo biglietto. È più un invito, visto che non è prevista vendita al pubblico. I tagliandi infatti vengono distribuiti in scuole e collegi della città, e finiscono agli studenti più meritevoli, o comunque a quelli meno turbolenti. Tutto deve filare liscio, è una giornata che non può e non deve finire nelle pagine di cronaca. E poco importa se tra gli alunni più quieti non ci sono tanti fan dei Depeche Mode, l’arena sarà comunque piena e la festa non avrà spiacevoli contrattempi. Ma essere disciplinati non significa non saper fiutare un buon affare, e lì fuori dalle aule è pieno di giovani appassionati che darebbero qualsiasi cosa per non perdersi il primo storico appuntamento con i propri idoli. Sarà il volume di scambi al mercato nero a dare la misura della loro febbre. Così, nel pomeriggio del concerto, la scena nelle strade vicine al palazzetto in Prenzlauer Berg è più o meno questa: una distesa di camicie blu (era previsto, è l’uniforme della Libera Gioventù Tedesca) puntellata da giacche di pelle nera, in un buffo patchwork di colori e stili. Sotto la neve leggera di inizio marzo soldi e biglietti passano di mano e cambiano colore. Bagarinaggio last minute. Un testimone racconta allo Spiegel di aver sentito qualcuno offrire la propria motocicletta, in cambio del tagliando d’ingresso.

Di tutto questo la band non sa nulla. Dal momento in cui superano il Checkpoint Charlie per entrare nel settore sovietico della città, i Depeche Mode sono scortati e tenuti al riparo dal mondo esterno, fuori dalla portata dei fan.  Dall’albergo vengono portati all’arena, attraversando strade transennate; il soundcheck si svolge sotto lo sguardo attento di decine di agenti. Ma quando è il momento di suonare, finisce tutto tra parentesi. Un gruppo locale deve aprire la serata: viene subissato di fischi ed è costretto a cedere il palco dopo sole due canzoni. Alle 20.08 il cantante Dave Gahan saluta la folla e la magia ha inizio. Anni dopo il tastierista Andy Fletcher ammette: “Col senno di poi non avremmo dovuto accettare, siamo stati usati dal Partito. Ma ragazzi, è stato un grande concerto!”.

Showdown

Lo spettacolo dei Depeche Mode racconta bene le contraddizioni di un regime in cerca di un equilibrio tra l’ossessione per il controllo e il bisogno di aperture. In questo clima di schizofrenia culturale si arriva alla sfida dei concerti del giugno 1988. Il primo del mese la DDR scalda i muscoli e la voce con Joe Cocker, ma il vero duello inizia giovedì 16. Pronti? Si parte. Primo round: Pink Floyd contro James Brown. La serata fila abbastanza liscia. A Est “il padrino del Soul” regala il suo spettacolo di energia e testosterone, i Pink Floyd rispondono da par loro, e anche senza Waters non si negano una “Another brick in the wall”, poco prima dei bis. È il diciannovesimo pezzo in scaletta, e per un attimo sembra quasi che i precedenti diciotto siano stati solo una lunga, ipnotica preparazione al momento più atteso della serata.

Il giorno dopo è di pausa: è un venerdì 17, ma la scaramanzia non c’entra. A Monaco di Baviera si gioca Germania Ovest-Spagna, ultima gara del girone, decisiva per l’accesso alle semifinali degli Europei di calcio. A Occidente del Muro sono tutti incollati alla televisione, e forse anche a Oriente, non fosse altro che per “gufare” (per la cronaca, una doppietta di Rudi Voeller farà esultare i primi e masticare amaro i secondi).

Il secondo round, sabato 18, non ha luogo per mancanza di sfidanti. Nella piazza del Reichstag non ci sono eventi in programma: serve tempo per passare dal palco dei Pink Floyd a quello, non meno complesso, della star invitata per il gran finale. Al Weissensee il palco del Festival è invece sempre lo stesso, e stavolta ci salgono i Marillion, altra band inglese colpita al cuore dagli Hansa Studios: il loro singolo più famoso, “Kayleigh”, è nato qui, e il video è in buona parte una passeggiata del cantante Fish lungo il Muro.

E poi arriva domenica 19, la sfida più attesa, il round decisivo. Michael Jackson contro Bryan Adams, “Bad” contro “Heaven”. Tutti e due fanno il pienone, ma il verdetto finale non dipende dalle due piazze. Il vincitore si deciderà in una terza arena, la stessa che si era formata in modo spontaneo l’anno prima a pochi metri dal concerto di Bowie. Se anche stavolta una folla improvvisata si presenterà ai piedi del Muro per origliare scampoli di Occidente, quelli dell’angolo rosso dovranno ammettere il k.o. tecnico. Responso: i resoconti ufficiali parlano di 56mila spettatori paganti per il concerto di Michael Jackson, i rapporti della Stasi e gli articoli dei cronisti raccontano di altri 3mila accorsi per ascoltarlo al di là del Muro. Senza biglietto, ma non senza pagare un prezzo: “Quando era appena cominciato, dall’altra parte, il concerto di Michael Jackson, gli agenti in borghese, a colpi di manganelli elettrici, hanno allontanato i giornalisti occidentali, mentre i giovani tentavano di proteggersi”, scrive la corrispondente di “Repubblica” Vanna Vannuccini. Niente da fare, ancora una volta la voglia di libertà è più forte della paura. A questo punto la DDR avrebbe tutti gli elementi per gettare la spugna. Invece tenta un’ultima carta disperata. Punta in alto, molto in alto, al Boss in persona. È l’arma finale di questa guerra fredda del rock. Gli esploderà tra le mani.

Sfida all’ultima nota

La posta in gioco è chiara: bisogna tenere lontani i giovani dell’Est da quel Muro. Lo sanno bene i responsabili della FDJ, la “Libera Gioventù Tedesca”, che hanno insistito per organizzare l’evento. La loro logica è inoppugnabile: Berlino Est è una pentola a pressione, quel che ribolle tra i giovani è destinato a esplodere se non si concede loro una valvola di sfogo. Quale? Tre giorni di musica con artisti occidentali. Dove? Anche in questo caso la lezione dell’anno precedente è stata mandata a memoria: il mini-festival si terrà lontano dal centro, nell’area del velodromo di Weissensee, a 9 chilometri dalla Porta di Brandeburgo. Motto? “Fuer Atomawaffenfreien Zonen” e “Gegen Apartheid”. “Per le zone denuclearizzate” e “Contro l’apartheid”. Ecco, magari c’è un eccesso di zelo nel mettere nello stesso calderone due temi così diversi. Ma, anche se sfugge il nesso, l’obiettivo è chiaro: il concerto nasce per nobili finalità. Evviva. Ciliegina sulla torta? La madrina. E non una qualsiasi: a presentare gli artisti sul palco sarà la pattinatrice Katarina Witt.

Sfida all’ultima nota

La posta in gioco è chiara: bisogna tenere lontani i giovani dell’Est da quel Muro. Lo sanno bene i responsabili della FDJ, la “Libera Gioventù Tedesca”, che hanno insistito per organizzare l’evento. La loro logica è inoppugnabile: Berlino Est è una pentola a pressione, quel che ribolle tra i giovani è destinato a esplodere se non si concede loro una valvola di sfogo. Quale? Tre giorni di musica con artisti occidentali. Dove? Anche in questo caso la lezione dell’anno precedente è stata mandata a memoria: il mini-festival si terrà lontano dal centro, nell’area del velodromo di Weissensee, a 9 chilometri dalla Porta di Brandeburgo.

Motto? “Fuer Atomawaffenfreien Zonen” e “Gegen Apartheid”. “Per le zone denuclearizzate” e “Contro l’apartheid”. Ecco, magari c’è un eccesso di zelo nel mettere nello stesso calderone due temi così diversi. Ma, anche se sfugge il nesso, l’obiettivo è chiaro: il concerto nasce per nobili finalità. Evviva. Ciliegina sulla torta? La madrina. E non una qualsiasi: a presentare gli artisti sul palco sarà la pattinatrice Katarina Witt. Per spiegare cosa rappresenti nella DDR del 1988 bastano tre lettere: è una dea. Ha appena messo a segno per la seconda volta una tripletta leggendaria: a gennaio campione d’Europa, a febbraio medaglia d’oro olimpica, a marzo campione del Mondo. È l’immagine di una nazione che vince, e lo fa con grazia ed eleganza, non con i muscoli sospetti delle sue colleghe dell’atletica leggera. Time Magazine l’ha appena definita “Il volto più bello del socialismo”.

Insomma, il ring è pronto, gli sfidanti sono schierati, si aspetta solo il suono della campanella. Ma prima di raccontarvi il match dobbiamo sfogliare a ritroso il nostro personalissimo cartellino. Perché la calda estate del 1988 ha un antipasto freddo. Ve lo serviamo subito.

Un Nobel, per la pace

Come vi avevamo anticipato, i primi artisti rock anglosassoni a esibirsi a Berlino Est sono i Barclay James Harvest: è il 14 luglio del 1987. Alla tastiera ritroviamo ancora Kevin McAlea, l’uomo che ha tradotto in inglese “99 Luftballons”. È la prima storica apertura della DDR dopo gli scontri al concerto di Bowie di giugno. Subito dopo, il 17 settembre, il colpaccio: è di scena Bob Dylan. In realtà le premesse sono malinconiche: si doveva esibire a Berlino Ovest, ma la prevendita è stata così fiacca da indurlo a rinunciare alla data e ad accettare l’invito della FDJ a suonare dall’altra parte del Muro. Gli organizzatori non rinunciano a dare un titolo alla serata: sarà il Friedenskonzert, il “Concerto per la pace” (non sia mai qualcuno pensi abbiano invitato un cantante americano solo per il gusto di ascoltare un po’ di musica…). Sul prato del Treptower Park accorrono in 80mila, sul palco con il futuro premio Nobel ci sono due complici d’eccezione. Il primo è Roger McGuinn, il chitarrista che negli anni ’60, con la sua 12 corde ha colorato di psichedelia le ballate di Dylan e le ha spacciate al pubblico hippy dei Byrds. L’altra spalla è un biondino capace di scrivere grandi pezzi rock, alla guida di una band molto affiatata: avesse più gusto per l’epica e una presenza più muscolare potrebbe rivaleggiare con Bruce Springsteen; ma ha i tratti dell’elfo e una voce tagliente. Si chiama Tom Petty, e alla fine di quel tour si unirà a Dylan nel supergruppo dei Travelling Wilburys.

I Barclay e Dylan sono due pionieri, ma se dobbiamo trovare una data d’inizio della “guerra fredda dei concerti” è il 7 marzo del 1988. C’è sempre lo zampino della Libera Gioventù Tedesca. Deve festeggiare un compleanno, il 42esimo: è nata infatti nel 1936, in clandestinità, sotto il nazismo. Ora invece è un pezzo importante dell’establishment, quello che più si sforza di svecchiare il regime per allungargli la vita. L’anniversario gli fornisce una nuova occasione: invitare non un santone del rock ma una band emergente, dal grande seguito giovanile e legata a Berlino da un amore ricambiato. I Depeche Mode hanno registrato i loro ultimi album nei gloriosi Hansa Studios, quelli con le finestre affacciate sul Muro. I loro suoni elettronici, nati della Meistersalle già culla di capolavori di Bowie, hanno ormai invaso l’Europa. Qui hanno iniziato a vestirsi di nero. La mente del gruppo, Martin Gore, ha anche deciso di fermarsi in città per viverci un paio d’anni. Scatta l’invito.

Black celebration

Ma chi si aspetta un lancio in grande stile è destinato a rimanere deluso: il concerto sembra quasi un appuntamento clandestino. Innanzitutto il biglietto: è un cartoncino con il motivo dell’evento (un compleanno), la data (lunedì 7 marzo), l’orario (presentatevi alle sei, si inizia alle sette), il luogo (la Werner-Seelenbinder-Halle). Piccolo particolare: nessuna traccia del nome della band (!). D’altronde, non è neanche corretto chiamarlo biglietto. È più un invito, visto che non è prevista vendita al pubblico. I tagliandi infatti vengono distribuiti in scuole e collegi della città, e finiscono agli studenti più meritevoli, o comunque a quelli meno turbolenti. Tutto deve filare liscio, è una giornata che non può e non deve finire nelle pagine di cronaca. E poco importa se tra gli alunni più quieti non ci sono tanti fan dei Depeche Mode, l’arena sarà comunque piena e la festa non avrà spiacevoli contrattempi. Ma essere disciplinati non significa non saper fiutare un buon affare, e lì fuori dalle aule è pieno di giovani appassionati che darebbero qualsiasi cosa per non perdersi il primo storico appuntamento con i propri idoli. Sarà il volume di scambi al mercato nero a dare la misura della loro febbre. Così, nel pomeriggio del concerto, la scena nelle strade vicine al palazzetto in Prenzlauer Berg è più o meno questa: una distesa di camicie blu (era previsto, è l’uniforme della Libera Gioventù Tedesca) puntellata da giacche di pelle nera, in un buffo patchwork di colori e stili. Sotto la neve leggera di inizio marzo soldi e biglietti passano di mano e cambiano colore. Bagarinaggio last minute. Un testimone racconta allo Spiegel di aver sentito qualcuno offrire la propria motocicletta, in cambio del tagliando d’ingresso.

Di tutto questo la band non sa nulla. Dal momento in cui superano il Checkpoint Charlie per entrare nel settore sovietico della città, i Depeche Mode sono scortati e tenuti al riparo dal mondo esterno, fuori dalla portata dei fan.  Dall’albergo vengono portati all’arena, attraversando strade transennate; il soundcheck si svolge sotto lo sguardo attento di decine di agenti. Ma quando è il momento di suonare, finisce tutto tra parentesi. Un gruppo locale deve aprire la serata: viene subissato di fischi ed è costretto a cedere il palco dopo sole due canzoni. Alle 20.08 il cantante Dave Gahan saluta la folla e la magia ha inizio. Anni dopo il tastierista Andy Fletcher ammette: “Col senno di poi non avremmo dovuto accettare, siamo stati usati dal Partito. Ma ragazzi, è stato un grande concerto!”.

Showdown

Lo spettacolo dei Depeche Mode racconta bene le contraddizioni di un regime in cerca di un equilibrio tra l’ossessione per il controllo e il bisogno di aperture. In questo clima di schizofrenia culturale si arriva alla sfida dei concerti del giugno 1988. Il primo del mese la DDR scalda i muscoli e la voce con Joe Cocker, ma il vero duello inizia giovedì 16. Pronti? Si parte. Primo round: Pink Floyd contro James Brown. La serata fila abbastanza liscia. A Est “il padrino del Soul” regala il suo spettacolo di energia e testosterone, i Pink Floyd rispondono da par loro, e anche senza Waters non si negano una “Another brick in the wall”, poco prima dei bis. È il diciannovesimo pezzo in scaletta, e per un attimo sembra quasi che i precedenti diciotto siano stati solo una lunga, ipnotica preparazione al momento più atteso della serata.

Il giorno dopo è di pausa: è un venerdì 17, ma la scaramanzia non c’entra. A Monaco di Baviera si gioca Germania Ovest-Spagna, ultima gara del girone, decisiva per l’accesso alle semifinali degli Europei di calcio. A Occidente del Muro sono tutti incollati alla televisione, e forse anche a Oriente, non fosse altro che per “gufare” (per la cronaca, una doppietta di Rudi Voeller farà esultare i primi e masticare amaro i secondi).

Il secondo round, sabato 18, non ha luogo per mancanza di sfidanti. Nella piazza del Reichstag non ci sono eventi in programma: serve tempo per passare dal palco dei Pink Floyd a quello, non meno complesso, della star invitata per il gran finale. Al Weissensee il palco del Festival è invece sempre lo stesso, e stavolta ci salgono i Marillion, altra band inglese colpita al cuore dagli Hansa Studios: il loro singolo più famoso, “Kayleigh”, è nato qui, e il video è in buona parte una passeggiata del cantante Fish lungo il Muro.

E poi arriva domenica 19, la sfida più attesa, il round decisivo. Michael Jackson contro Bryan Adams, “Bad” contro “Heaven”. Tutti e due fanno il pienone, ma il verdetto finale non dipende dalle due piazze. Il vincitore si deciderà in una terza arena, la stessa che si era formata in modo spontaneo l’anno prima a pochi metri dal concerto di Bowie. Se anche stavolta una folla improvvisata si presenterà ai piedi del Muro per origliare scampoli di Occidente, quelli dell’angolo rosso dovranno ammettere il k.o. tecnico. Responso: i resoconti ufficiali parlano di 56mila spettatori paganti per il concerto di Michael Jackson, i rapporti della Stasi e gli articoli dei cronisti raccontano di altri 3mila accorsi per ascoltarlo al di là del Muro. Senza biglietto, ma non senza pagare un prezzo: “Quando era appena cominciato, dall’altra parte, il concerto di Michael Jackson, gli agenti in borghese, a colpi di manganelli elettrici, hanno allontanato i giornalisti occidentali, mentre i giovani tentavano di proteggersi”, scrive la corrispondente di “Repubblica” Vanna Vannuccini. Niente da fare, ancora una volta la voglia di libertà è più forte della paura. A questo punto la DDR avrebbe tutti gli elementi per gettare la spugna. Invece tenta un’ultima carta disperata. Punta in alto, molto in alto, al Boss in persona. È l’arma finale di questa guerra fredda del rock. Gli esploderà tra le mani.

Per spiegare cosa rappresenti nella DDR del 1988 bastano tre lettere: è una dea. Ha appena messo a segno per la seconda volta una tripletta leggendaria: a gennaio campione d’Europa, a febbraio medaglia d’oro olimpica, a marzo campione del Mondo. È l’immagine di una nazione che vince, e lo fa con grazia ed eleganza, non con i muscoli sospetti delle sue colleghe dell’atletica leggera. Time Magazine l’ha appena definita “Il volto più bello del socialismo”. Insomma, il ring è pronto, gli sfidanti sono schierati, si aspetta solo il suono della campanella. Ma prima di raccontarvi il match dobbiamo sfogliare a ritroso il nostro personalissimo cartellino. Perché la calda estate del 1988 ha un antipasto freddo. Ve lo serviamo subito.

Un Nobel, per la pace

Come vi avevamo anticipato, i primi artisti rock anglosassoni a esibirsi a Berlino Est sono i Barclay James Harvest: è il 14 luglio del 1987. Alla tastiera ritroviamo ancora Kevin McAlea, l’uomo che ha tradotto in inglese “99 Luftballons”. È la prima storica apertura della DDR dopo gli scontri al concerto di Bowie di giugno. Subito dopo, il 17 settembre, il colpaccio: è di scena Bob Dylan. In realtà le premesse sono malinconiche: si doveva esibire a Berlino Ovest, ma la prevendita è stata così fiacca da indurlo a rinunciare alla data e ad accettare l’invito della FDJ a suonare dall’altra parte del Muro. Gli organizzatori non rinunciano a dare un titolo alla serata: sarà il Friedenskonzert, il “Concerto per la pace” (non sia mai qualcuno pensi abbiano invitato un cantante americano solo per il gusto di ascoltare un po’ di musica…). Sul prato del Treptower Park accorrono in 80mila, sul palco con il futuro premio Nobel ci sono due complici d’eccezione. Il primo è Roger McGuinn, il chitarrista che negli anni ’60, con la sua 12 corde ha colorato di psichedelia le ballate di Dylan e le ha spacciate al pubblico hippy dei Byrds. L’altra spalla è un biondino capace di scrivere grandi pezzi rock, alla guida di una band molto affiatata: avesse più gusto per l’epica e una presenza più muscolare potrebbe rivaleggiare con Bruce Springsteen; ma ha i tratti dell’elfo e una voce tagliente. Si chiama Tom Petty, e alla fine di quel tour si unirà a Dylan nel supergruppo dei Travelling Wilburys.

 I Barclay e Dylan sono due pionieri, ma se dobbiamo trovare una data d’inizio della “guerra fredda dei concerti” è il 7 marzo del 1988. C’è sempre lo zampino della Libera Gioventù Tedesca. Deve festeggiare un compleanno, il 52esimo: è nata infatti nel 1936, in clandestinità, sotto il nazismo. Ora invece è un pezzo importante dell’establishment, quello che più si sforza di svecchiare il regime per allungargli la vita. L’anniversario gli fornisce una nuova occasione: invitare non un santone del rock ma una band emergente, dal grande seguito giovanile e legata a Berlino da un amore ricambiato. I Depeche Mode hanno registrato i loro ultimi album nei gloriosi Hansa Studios, quelli con le finestre affacciate sul Muro. I loro suoni elettronici, nati della Meistersalle già culla di capolavori di Bowie, hanno ormai invaso l’Europa. Qui hanno iniziato a vestirsi di nero. La mente del gruppo, Martin Gore, ha anche deciso di fermarsi in città per viverci un paio d’anni. Scatta l’invito.

Black celebration

Ma chi si aspetta un lancio in grande stile è destinato a rimanere deluso: il concerto sembra quasi un appuntamento clandestino. Innanzitutto il biglietto: è un cartoncino con il motivo dell’evento (un compleanno), la data (lunedì 7 marzo), l’orario (presentatevi alle sei, si inizia alle sette), il luogo (la Werner-Seelenbinder-Halle). Piccolo particolare: nessuna traccia del nome della band (!). D’altronde, non è neanche corretto chiamarlo biglietto. È più un invito, visto che non è prevista vendita al pubblico. I tagliandi infatti vengono distribuiti in scuole e collegi della città, e finiscono agli studenti più meritevoli, o comunque a quelli meno turbolenti. Tutto deve filare liscio, è una giornata che non può e non deve finire nelle pagine di cronaca. E poco importa se tra gli alunni più quieti non ci sono tanti fan dei Depeche Mode, l’arena sarà comunque piena e la festa non avrà spiacevoli contrattempi. Ma essere disciplinati non significa non saper fiutare un buon affare, e lì fuori dalle aule è pieno di giovani appassionati che darebbero qualsiasi cosa per non perdersi il primo storico appuntamento con i propri idoli. Sarà il volume di scambi al mercato nero a dare la misura della loro febbre. Così, nel pomeriggio del concerto, la scena nelle strade vicine al palazzetto in Prenzlauer Berg è più o meno questa: una distesa di camicie blu (era previsto, è l’uniforme della Libera Gioventù Tedesca) puntellata da giacche di pelle nera, in un buffo patchwork di colori e stili. Sotto la neve leggera di inizio marzo soldi e biglietti passano di mano e cambiano colore. Bagarinaggio last minute. Un testimone racconta allo Spiegel di aver sentito qualcuno offrire la propria motocicletta, in cambio del tagliando d’ingresso. Di tutto questo la band non sa nulla. Dal momento in cui superano il Checkpoint Charlie per entrare nel settore sovietico della città, i Depeche Mode sono scortati e tenuti al riparo dal mondo esterno, fuori dalla portata dei fan.  Dall’albergo vengono portati all’arena, attraversando strade transennate; il soundcheck si svolge sotto lo sguardo attento di decine di agenti. Ma quando è il momento di suonare, finisce tutto tra parentesi. Un gruppo locale deve aprire la serata: viene subissato di fischi ed è costretto a cedere il palco dopo sole due canzoni. Alle 20.08 il cantante Dave Gahan saluta la folla e la magia ha inizio. Anni dopo il tastierista Andy Fletcher ammette: “Col senno di poi non avremmo dovuto accettare, siamo stati usati dal Partito. Ma ragazzi, è stato un grande concerto!”.

Showdown

Lo spettacolo dei Depeche Mode racconta bene le contraddizioni di un regime in cerca di un equilibrio tra l’ossessione per il controllo e il bisogno di aperture. In questo clima di schizofrenia culturale si arriva alla sfida dei concerti del giugno 1988. Il primo del mese la DDR scalda i muscoli e la voce con Joe Cocker, ma il vero duello inizia giovedì 16. Pronti? Si parte. Primo round: Pink Floyd contro James Brown. La serata fila abbastanza liscia. A Est “il padrino del Soul” regala il suo spettacolo di energia e testosterone, i Pink Floyd rispondono da par loro, e anche senza Waters non si negano una “Another brick in the wall”, poco prima dei bis. È il diciannovesimo pezzo in scaletta, e per un attimo sembra quasi che i precedenti diciotto siano stati solo una lunga, ipnotica preparazione al momento più atteso della serata. Il giorno dopo è di pausa: è un venerdì 17, ma la scaramanzia non c’entra. A Monaco di Baviera si gioca Germania Ovest-Spagna, ultima gara del girone, decisiva per l’accesso alle semifinali degli Europei di calcio. A Occidente del Muro sono tutti incollati alla televisione, e forse anche a Oriente, non fosse altro che per “gufare” (per la cronaca, una doppietta di Rudi Voeller farà esultare i primi e masticare amaro i secondi). Il secondo round, sabato 18, non ha luogo per mancanza di sfidanti. Nella piazza del Reichstag non ci sono eventi in programma: serve tempo per passare dal palco dei Pink Floyd a quello, non meno complesso, della star invitata per il gran finale. Al Weissensee il palco del Festival è invece sempre lo stesso, e stavolta ci salgono i Marillion, altra band inglese colpita al cuore dagli Hansa Studios: il loro singolo più famoso, “Kayleigh”, è nato qui, e il video è in buona parte una passeggiata del cantante Fish lungo il Muro. E poi arriva domenica 19, la sfida più attesa, il round decisivo. Michael Jackson contro Bryan Adams, “Bad” contro “Heaven”. Tutti e due fanno il pienone, ma il verdetto finale non dipende dalle due piazze. Il vincitore si deciderà in una terza arena, la stessa che si era formata in modo spontaneo l’anno prima a pochi metri dal concerto di Bowie. Se anche stavolta una folla improvvisata si presenterà ai piedi del Muro per origliare scampoli di Occidente, quelli dell’angolo rosso dovranno ammettere il k.o. tecnico. Responso: i resoconti ufficiali parlano di 56mila spettatori paganti per il concerto di Michael Jackson, i rapporti della Stasi e gli articoli dei cronisti raccontano di altri 3mila accorsi per ascoltarlo al di là del Muro. Senza biglietto, ma non senza pagare un prezzo: “Quando era appena cominciato, dall’altra parte, il concerto di Michael Jackson, gli agenti in borghese, a colpi di manganelli elettrici, hanno allontanato i giornalisti occidentali, mentre i giovani tentavano di proteggersi”, scrive la corrispondente di “Repubblica” Vanna Vannuccini. Niente da fare, ancora una volta la voglia di libertà è più forte della paura. A questo punto la DDR avrebbe tutti gli elementi per gettare la spugna. Invece tenta un’ultima carta disperata. Punta in alto, molto in alto, al Boss in persona. È l’arma finale di questa guerra fredda del rock. Gli esploderà tra le mani.

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