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Musica e muro di Berlino, podcast 2 di Rock & Wall: l'8 giugno 1982 e 99 palloncini

Mondo

Nicola Ghittoni

Cinque date, cinque concerti, cinque storie nella cornice della grande Storia. Un viaggio tra le note che hanno fatto da colonna sonora ai sogni, alle speranze e alle battaglie di una generazione cresciuta all’ombra del Muro. Capitolo secondo

Podcast Sky Tg24 in collaborazione con Radio 24 - Il Sole 24 Ore 

L’appuntamento dei Rolling Stones con Berlino è solo rimandato. Già undici mesi dopo il concerto-beffa del ’69 sono in città con il loro spettacolo, e negli anni ’70 è una tappa fissa dei loro giri per l’Europa.

Non suonano mai sopra un tetto. Anzi, al contrario, si esibiscono sempre sotto un tetto, e sempre lo stesso: quello della Deutschlandhalle, l’arena coperta voluta dal Terzo Reich per ospitare le gare di pugilato, lotta e sollevamento pesi durante le Olimpiadi del 1936. C’è una certa ritrosia a lasciarli scatenare all’aperto, e si capisce: l’ultima volta che l’hanno fatto è durata una manciata di canzoni e terminata con scontri, un’ottantina di arresti e l’anfiteatro di Waldbuehne danneggiato al punto da rimanere inagibile per sette anni. È stato il 15 settembre 1965, la loro prima volta a Berlino. Pochi giorni dopo la loro musica viene messa al bando nella vicina DDR, spaventata dall’effetto che sembra avere sui giovani. È il tentativo di praticare un’anestesia di massa nel Paese. Ma gli anticorpi sono più forti di quanto sembri. E la crisi di rigetto colpirà il medico, non il paziente.

Time is on my side

Ma il 1982 è un anno speciale. Un primo indizio arriva proprio dalla Germania Est: a gennaio la Amiga, l’etichetta discografica di Stato, per la prima volta pubblica un disco dei Rolling Stones. È una raccolta di successi. La foto in copertina è ormai già “maggiorenne”: risale al 1964, ed è la stessa utilizzata per il secondo album del gruppo. In primo piano, sulla destra, c’è Brian Jones, ma del resto anche le canzoni – a parte un paio - si fermano al 1967. Nessun brano tratto dal poker di album con i quali Mick e compagni hanno fatto saltare il banco al tavolo del rock negli anni a cavallo dello scioglimento dei Beatles. Ma conta poco, e importa meno: non è la musica, a mancare ai ragazzi al di là del Muro. Nel 1971, secondo un’indagine, il 93% dei giovani di Berlino Est ha accesso e consuma media d’oltre-cortina. È tenere in mano l’oggetto proibito del loro desiderio, posare il vinile sul giradischi, ascoltare il crepitio della puntina negli amplificatori, sobbalzare alle prime note del riff di “Satisfaction”: questa sì è una vera rivoluzione.

Tour Mundial

Anche il tour del 1982 è speciale. Noi lo sappiamo bene, e lo ricordiamo con particolare affetto: la prima data italiana è a Torino, siamo in piena estate, in città fa un caldo pazzesco eppure l’inizio del concerto allo stadio Comunale è fissato per le 15. Pura follia, se stessimo parlando di un giorno normale. Ma è l’11 luglio, e di lì a poche ore la nazionale di calcio di Bearzot scenderà in campo a Madrid contro la Germania per giocarsi il titolo di campione del Mondo. E non si può dire che gli Stones non siano stati attenti al calendario del Mundial: sono appena atterrati proprio da lì, da Madrid, dove hanno suonato per due sere concedendosi però nel mezzo un giorno di intervallo, in modo da non accavallarsi con le semifinali. Semplicemente, nel programmare la tournée, non hanno dato molto credito alle chance degli azzurri. Come del resto ha fatto il 99% degli italiani. E invece siamo in finale, e così Mick e compagni si trovano sotto un sole feroce, all’ora di solito riservata alla pennichella, ad attaccare “Under my thumb” davanti a una folla adorante. Che raggiunge l’estasi quando Jagger sfoggia sul palco una maglia della nazionale, inopinatamente a maniche lunghe, con sulle spalle il numero 20 di Paolo Rossi. E arrampicato su una sorta di gru fa piovere sulla folla il suo pronostico: “Vincerete, stasera... Tres a uno”. Bingo. La sera dopo si bissa: stesso stadio, ma stavolta si inizia alle 18, ed è una festa. Gli azzurri sono tornati con la coppa, gli italiani non hanno ancora smaltito la sbornia di una notte di bagordi, il presidente Pertini forse non ha ancora smaltito la rabbia per la partita a scopone persa, in coppia con Zoff, contro Bearzot e Causio sull’aereo del ritorno. Mick Jagger chiude il concerto come la sera precedente con “Satisfaction”, ma stavolta indossa una nuova maglietta azzurra, più adatta all’occasione: non solo perché a maniche corte, ma perché è la 6 di Claudio Gentile, dello stesso modello utilizzato al mondiale, con il colletto a “V”, i bordini tricolore e il numero dall’effetto vagamente tridimensionale. E dal Comunale di Torino è tutto, restituiamo la linea.

Un filo di paura

Riavvolgiamo il nastro di un mese o poco più, e torniamo a Berlino. Gli Stones ci arrivano l’8 giugno, e anche solo pronunciare il nome della location scelta per lo spettacolo deve lasciargli sulle labbra il sapore di un cocktail ad altissima gradazione: due parti rivincita, una parte risarcimento. Perché si torna al Waldbuehne, l’anfiteatro degli scontri del ’65. Diciassette anni dopo, finalmente all’aria aperta. Del resto, non potrebbe essere altrimenti: non è solo la scenografia del tour a prevederlo, ma anche la sua sceneggiatura. Il palco è infatti sormontato da un arco di palloncini colorati che nell’ultima canzone prima dei bis, di solito “Jumpin’ Jack Flash”, vengono liberati in cielo. È stato così a Rotterdam e Hannover, le prime tappe del tour, così è anche a Berlino. Tra le migliaia di spettatori con il naso all’insù, ce n’è uno che osserva quel volo con occhi prima curiosi, poi accesi di un’allegria quasi febbrile. Ha avuto un’idea. Si chiama Carlo Karges, ha quasi 31 anni, ed è un chitarrista. Sta cercando di cavalcare l’onda che da qualche tempo ha trascinato in vetta alle classifiche le canzoni in tedesco: già, perché nel 1982, come per uno strano incantesimo, quella lingua che ancora molti (a torto) ritengono più marziale che musicale, sta seducendo mezza Europa. Il primo botto è di un ragazzo di Vienna: si fa chiamare Falco, e il suo “Der Kommissar” da gennaio è primo in classifica anche in Italia e Spagna. Arriva la primavera, e tocca a un altro gruppo, il Trio, ipnotizzare i giovani al ritmo della loro “Da Da Da”.  A questo pensa, Carlo Karges, perso nella folla del Waldbuehne: non c’è bisogno di essere gli Stones, che da vent’anni non sbagliano un colpo; ci vuole un singolo, basta azzeccare un ritornello, e il gioco è fatto. Poi il volo dei palloncini, l’intuizione fulminea. Eureka.

War games

Finisce il concerto, e Carlo non sta più nella pelle: deve raccontare a Gabriela e agli altri ragazzi la sua idea. Gabriela è la cantante del gruppo, ma tutti la chiamano Nena. E visto che è anche il volto e l’immagine della band, Nena diventerà il loro nome di scena. Carlo spiega la sua visione: “Ho visto quei palloncini e li ho immaginati volare al di là del Muro. Qualcuno a Est li scambia per un caccia, una diavoleria militare, un oggetto volante nemico, e fa scattare l’allarme. Entra in azione la contraerea e abbatte i palloncini, ma da Occidente sentono gli spari e mettono in campo l’artiglieria pesante. E così via, in un’escalation che arriva fino alla reciproca distruzione. Che ne pensate? Ci scriviamo una canzone?”. Detta oggi magari sarebbe stata liquidata con una scrollata di spalle e l’invito a moderare il consumo di alcolici. Ma se sei un giovane a Berlino nell’anno del signore 1982 capisci benissimo cosa intende Carlo, non fatichi a immaginare il volo di quei palloncini e segui perfettamente il filo paranoico che parte dal “Dottor Stranamore” di Kubrick per arrivare ad annodarsi a una chitarra elettrica. Mozione approvata, è appena nato il più grande successo della storia della musica tedesca: “99 Luftballons”. Nena ci mette la voce, Carlo Karges firma il testo, il tastierista apparecchia in musica quell’antipasto di Apocalisse. Gli dà un ritmo e un’andatura infantili, quasi da filastrocca, così intonati all’immagine dei palloncini colorati, così beffardamente stridenti rispetto alla storia immaginata da Carlo. È lo spirito dei tempi, e noi lo sappiamo bene. Alle nostre latitudini, i Righeira non stanno forse canticchiando le stesse paure? “99 Luftballons” esce nel 1983, esattamente come “Vamos a la playa”, la hit che rallegra e fa ballare l’estate italiana. A parte l’implacabile ritornello, il testo è di poche righe, la traduzione dallo spagnolo abbastanza semplice: parla di un’esplosione nucleare “che ci scompiglia i capelli”. Serve un altro indizio? Mentre nei cinema “War games” fa il pieno al botteghino, poche settimane dopo i Righeira fanno ingresso per la prima volta nella top ten anche i ragazzi del Gruppo Italiano, e allora capisci che sì, davvero c’è nell’aria c’è qualcosa di particolare, in quel 1983: una sorta di radiazione che spinge a esorcizzare a passo lieve di danza le più violente paure. Perché scusate, cos’altro è “Tropicana” se non la cronaca di un annientamento atomico al ritmo di calipso?

Finisce il concerto, e Carlo non sta più nella pelle: deve raccontare a Gabriela e agli altri ragazzi la sua idea. Gabriela è la cantante del gruppo, ma tutti la chiamano Nena. E visto che è anche il volto e l’immagine della band, Nena diventerà il loro nome di scena. Carlo spiega la sua visione: “Ho visto quei palloncini e li ho immaginati volare al di là del Muro. Qualcuno a Est li scambia per un caccia, una diavoleria militare, un oggetto volante nemico, e fa scattare l’allarme. Entra in azione la contraerea e abbatte i palloncini, ma da Occidente sentono gli spari e mettono in campo l’artiglieria pesante. E così via, in un’escalation che arriva fino alla reciproca distruzione. Che ne pensate? Ci scriviamo una canzone?”. Detta oggi magari sarebbe stata liquidata con una scrollata di spalle e l’invito a moderare il consumo di alcolici. Ma se sei un giovane a Berlino nell’anno del signore 1982 capisci benissimo cosa intende Carlo, non fatichi a immaginare il volo di quei palloncini e segui perfettamente il filo paranoico che parte dal “Dottor Stranamore” di Kubrick per arrivare ad annodarsi a una chitarra elettrica. Mozione approvata, è appena nato il più grande successo della storia della musica tedesca: “99 Luftballons”.

Nena ci mette la voce, Carlo Karges firma il testo, il tastierista apparecchia in musica quell’antipasto di Apocalisse. Gli dà un ritmo e un’andatura infantili, quasi da filastrocca, così intonati all’immagine dei palloncini colorati, così beffardamente stridenti rispetto alla storia immaginata da Carlo. È lo spirito dei tempi, e noi lo sappiamo bene. Alle nostre latitudini, i Righeira non stanno forse canticchiando le stesse paure? “99 Luftballons” esce nel 1983, esattamente come “Vamos a la playa”, la hit che rallegra e fa ballare l’estate italiana. A parte l’implacabile ritornello, il testo è di poche righe, la traduzione dallo spagnolo abbastanza semplice: parla di un’esplosione nucleare “che ci scompiglia i capelli”. Serve un altro indizio? Mentre nei cinema “War games” fa il pieno al botteghino, poche settimane dopo i Righeira fanno ingresso per la prima volta nella top ten anche i ragazzi del Gruppo Italiano, e allora capisci che sì, davvero c’è nell’aria c’è qualcosa di particolare, in quel 1983: una sorta di radiazione che spinge a esorcizzare a passo lieve di danza le più violente paure. Perché scusate, cos’altro è “Tropicana” se non la cronaca di un annientamento atomico al ritmo di calipso?

 

Ho visto Nena volare

Ma torniamo ai Nena. Il successo è immediato e travolgente. Scalano le classifiche anche in Gran Bretagna e Stati Uniti, mercati fino ad allora inattaccabili. Un conto è essere “Big in Japan”, come cantano (in inglese) i loro colleghi e connazionali Alphaville. Altro è sfondare nei santuari del pop, e senza neanche rinunciare alla propria madrelingua. Eppure, anche se il singolo viaggia benissimo sulle proprie gambe, dalla casa discografica arriva il diktat: l’onda va cavalcata fino in fondo, serve una traduzione per il mondo anglosassone. Ci provano in tanti, in tanti abbandonano. I risultati deludenti non scoraggiano la produzione, c’è un’ultima carta da giocare.

Si chiama Kevin McAlea. È un ragazzo irlandese, di Belfast, ma capita spesso in città. A Berlino è legato da affetto particolare: è qui che ha toccato il punto più alto della sua carriera. Perché anche Kevin è un musicista, un tastierista per la precisione. Non ha un gruppo fisso, ma è un sessionman piuttosto richiesto. Ha appena lavorato per Kate Bush, è in cerca di nuovi ingaggi. Il destino gli regala una chance, come spesso capita nella storia della musica: un artista lascia il suo gruppo, quelli rimasti devono cercare un sostituto, Kevin si trova al posto giusto nel momento giusto. È il 1979, la band si chiama Barclay James Harvest, e si è fatta un nome tra gli appassionati del progressive rock. L’anno successivo hanno in programma un concerto gratuito a Berlino, davanti al Reichstag: il 30 agosto si presentano in 170mila (dimenticate pure la data, ma tenete a mente la location: ci servirà).  Kevin non ha mai suonato davanti a una folla simile. Due anni dopo il concerto diventa anche un album live, e Berlino una tappa fissa dei viaggi di McAlea.

E ora si trova lì, nelle orecchie un’improbabile hit, sotto gli occhi un testo in tedesco che parla di 99 palloncini e sembra imbizzarrirsi ogni volta che qualcuno prova a raccontarlo nella lingua di Shakespeare. Kevin mormora nella testa i suoni, poi inizia a buttare giù qualche verso su una busta per le lettere (lui racconta di averla conservata, di averla ancora). Qualche ora dopo sulla busta non c’è più spazio per aggiungere una sillaba. Non ce n’è bisogno: “99 Red Balloons” è tutta lì, pronta per la sala d’incisione.

Successo senza confini

La versione inglese bissa il successo, e vola al primo posto in Gran Bretagna, Irlanda e Canada, ma gli stessi Nena ne prendono le distanze: nella nuova veste british la loro feroce presa per i fondelli dell’ottusità militarista – diventata un inno per i giovani tedeschi - gli sembra sfumare in un motivetto un po’ sciocco. Ma la partita è già vinta: quei palloncini, liberati da un gesto di Mick Jagger e intercettati dalla fantasia di uno spettatore curioso, sono ormai volati in cima a tutte le classifiche.

I Nena non ripeteranno più un successo simile. Possiamo abbandonarli qui, lasciarli come una nota a pie’ di pagina nel lungo romanzo delle “one hit wonder” musicali. Il romanzo breve di Kevin McAlea ha invece ancora un capitolo in serbo per noi, ed è una pagina di storia: il 14 luglio del 1987 i suoi Barclay James Harvest saranno il primo gruppo rock anglosassone a suonare a Berlino Est. Ci arriveremo. Ma prima il nostro viaggio ha in programma un’altra fermata. Giugno 1987, si torna davanti al Reichstag. Il Muro è lì a due passi, e questa volta riceverà una spallata che lo farà tremare. 

War games

Finisce il concerto, e Carlo non sta più nella pelle: deve raccontare a Gabriela e agli altri ragazzi la sua idea. Gabriela è la cantante del gruppo, ma tutti la chiamano Nena. E visto che è anche il volto e l’immagine della band, Nena diventerà il loro nome di scena. Carlo spiega la sua visione: “Ho visto quei palloncini e li ho immaginati volare al di là del Muro. Qualcuno a Est li scambia per un caccia, una diavoleria militare, un oggetto volante nemico, e fa scattare l’allarme. Entra in azione la contraerea e abbatte i palloncini, ma da Occidente sentono gli spari e mettono in campo l’artiglieria pesante. E così via, in un’escalation che arriva fino alla reciproca distruzione. Che ne pensate? Ci scriviamo una canzone?”. Detta oggi magari sarebbe stata liquidata con una scrollata di spalle e l’invito a moderare il consumo di alcolici. Ma se sei un giovane a Berlino nell’anno del signore 1982 capisci benissimo cosa intende Carlo, non fatichi a immaginare il volo di quei palloncini e segui perfettamente il filo paranoico che parte dal “Dottor Stranamore” di Kubrick per arrivare ad annodarsi a una chitarra elettrica. Mozione approvata, è appena nato il più grande successo della storia della musica tedesca: “99 Luftballons”.

Nena ci mette la voce, Carlo Karges firma il testo, il tastierista apparecchia in musica quell’antipasto di Apocalisse. Gli dà un ritmo e un’andatura infantili, quasi da filastrocca, così intonati all’immagine dei palloncini colorati, così beffardamente stridenti rispetto alla storia immaginata da Carlo. È lo spirito dei tempi, e noi lo sappiamo bene. Alle nostre latitudini, i Righeira non stanno forse canticchiando le stesse paure? “99 Luftballons” esce nel 1983, esattamente come “Vamos a la playa”, la hit che rallegra e fa ballare l’estate italiana. A parte l’implacabile ritornello, il testo è di poche righe, la traduzione dallo spagnolo abbastanza semplice: parla di un’esplosione nucleare “che ci scompiglia i capelli”. Serve un altro indizio? Mentre nei cinema “War games” fa il pieno al botteghino, poche settimane dopo i Righeira fanno ingresso per la prima volta nella top ten anche i ragazzi del Gruppo Italiano, e allora capisci che sì, davvero c’è nell’aria c’è qualcosa di particolare, in quel 1983: una sorta di radiazione che spinge a esorcizzare a passo lieve di danza le più violente paure. Perché scusate, cos’altro è “Tropicana” se non la cronaca di un annientamento atomico al ritmo di calipso?

 

Ho visto Nena volare

Ma torniamo ai Nena. Il successo è immediato e travolgente. Scalano le classifiche anche in Gran Bretagna e Stati Uniti, mercati fino ad allora inattaccabili. Un conto è essere “Big in Japan”, come cantano (in inglese) i loro colleghi e connazionali Alphaville. Altro è sfondare nei santuari del pop, e senza neanche rinunciare alla propria madrelingua. Eppure, anche se il singolo viaggia benissimo sulle proprie gambe, dalla casa discografica arriva il diktat: l’onda va cavalcata fino in fondo, serve una traduzione per il mondo anglosassone. Ci provano in tanti, in tanti abbandonano. I risultati deludenti non scoraggiano la produzione, c’è un’ultima carta da giocare.

Si chiama Kevin McAlea. È un ragazzo irlandese, di Belfast, ma capita spesso in città. A Berlino è legato da affetto particolare: è qui che ha toccato il punto più alto della sua carriera. Perché anche Kevin è un musicista, un tastierista per la precisione. Non ha un gruppo fisso, ma è un sessionman piuttosto richiesto. Ha appena lavorato per Kate Bush, è in cerca di nuovi ingaggi. Il destino gli regala una chance, come spesso capita nella storia della musica: un artista lascia il suo gruppo, quelli rimasti devono cercare un sostituto, Kevin si trova al posto giusto nel momento giusto. È il 1979, la band si chiama Barclay James Harvest, e si è fatta un nome tra gli appassionati del progressive rock. L’anno successivo hanno in programma un concerto gratuito a Berlino, davanti al Reichstag: il 30 agosto si presentano in 170mila (dimenticate pure la data, ma tenete a mente la location: ci servirà).  Kevin non ha mai suonato davanti a una folla simile. Due anni dopo il concerto diventa anche un album live, e Berlino una tappa fissa dei viaggi di McAlea.

E ora si trova lì, nelle orecchie un’improbabile hit, sotto gli occhi un testo in tedesco che parla di 99 palloncini e sembra imbizzarrirsi ogni volta che qualcuno prova a raccontarlo nella lingua di Shakespeare. Kevin mormora nella testa i suoni, poi inizia a buttare giù qualche verso su una busta per le lettere (lui racconta di averla conservata, di averla ancora). Qualche ora dopo sulla busta non c’è più spazio per aggiungere una sillaba. Non ce n’è bisogno: “99 Red Balloons” è tutta lì, pronta per la sala d’incisione.

Successo senza confini

La versione inglese bissa il successo, e vola al primo posto in Gran Bretagna, Irlanda e Canada, ma gli stessi Nena ne prendono le distanze: nella nuova veste british la loro feroce presa per i fondelli dell’ottusità militarista – diventata un inno per i giovani tedeschi - gli sembra sfumare in un motivetto un po’ sciocco. Ma la partita è già vinta: quei palloncini, liberati da un gesto di Mick Jagger e intercettati dalla fantasia di uno spettatore curioso, sono ormai volati in cima a tutte le classifiche.

I Nena non ripeteranno più un successo simile. Possiamo abbandonarli qui, lasciarli come una nota a pie’ di pagina nel lungo romanzo delle “one hit wonder” musicali. Il romanzo breve di Kevin McAlea ha invece ancora un capitolo in serbo per noi, ed è una pagina di storia: il 14 luglio del 1987 i suoi Barclay James Harvest saranno il primo gruppo rock anglosassone a suonare a Berlino Est. Ci arriveremo. Ma prima il nostro viaggio ha in programma un’altra fermata. Giugno 1987, si torna davanti al Reichstag. Il Muro è lì a due passi, e questa volta riceverà una spallata che lo farà tremare. 

Ho visto Nena volare

Ma torniamo ai Nena. Il successo è immediato e travolgente. Scalano le classifiche anche in Gran Bretagna e Stati Uniti, mercati fino ad allora inattaccabili. Un conto è essere “Big in Japan”, come cantano (in inglese) i loro colleghi e connazionali Alphaville. Altro è sfondare nei santuari del pop, e senza neanche rinunciare alla propria madrelingua. Eppure, anche se il singolo viaggia benissimo sulle proprie gambe, dalla casa discografica arriva il diktat: l’onda va cavalcata fino in fondo, serve una traduzione per il mondo anglosassone. Ci provano in tanti, in tanti abbandonano. I risultati deludenti non scoraggiano la produzione, c’è un’ultima carta da giocare. Si chiama Kevin McAlea. È un ragazzo irlandese, di Belfast, ma capita spesso in città. A Berlino è legato da affetto particolare: è qui che ha toccato il punto più alto della sua carriera. Perché anche Kevin è un musicista, un tastierista per la precisione. Non ha un gruppo fisso, ma è un sessionman piuttosto richiesto. Ha appena lavorato per Kate Bush, è in cerca di nuovi ingaggi. Il destino gli regala una chance, come spesso capita nella storia della musica: un artista lascia il suo gruppo, quelli rimasti devono cercare un sostituto, Kevin si trova al posto giusto nel momento giusto. È il 1979, la band si chiama Barclay James Harvest, e si è fatta un nome tra gli appassionati del progressive rock. L’anno successivo hanno in programma un concerto gratuito a Berlino, davanti al Reichstag: il 30 agosto si presentano in 170mila (dimenticate pure la data, ma tenete a mente la location: ci servirà).  Kevin non ha mai suonato davanti a una folla simile. Due anni dopo il concerto diventa anche un album live, e Berlino una tappa fissa dei viaggi di McAlea. E ora si trova lì, nelle orecchie un’improbabile hit, sotto gli occhi un testo in tedesco che parla di 99 palloncini e sembra imbizzarrirsi ogni volta che qualcuno prova a raccontarlo nella lingua di Shakespeare. Kevin mormora nella testa i suoni, poi inizia a buttare giù qualche verso su una busta per le lettere (lui racconta di averla conservata, di averla ancora). Qualche ora dopo sulla busta non c’è più spazio per aggiungere una sillaba. Non ce n’è bisogno: “99 Red Balloons” è tutta lì, pronta per la sala d’incisione.

 

Successo senza confini

La versione inglese bissa il successo, e vola al primo posto in Gran Bretagna, Irlanda e Canada, ma gli stessi Nena ne prendono le distanze: nella nuova veste british la loro feroce presa per i fondelli dell’ottusità militarista – diventata un inno per i giovani tedeschi - gli sembra sfumare in un motivetto un po’ sciocco. Ma la partita è già vinta: quei palloncini, liberati da un gesto di Mick Jagger e intercettati dalla fantasia di uno spettatore curioso, sono ormai volati in cima a tutte le classifiche. I Nena non ripeteranno più un successo simile. Possiamo abbandonarli qui, lasciarli come una nota a pie’ di pagina nel lungo romanzo delle “one hit wonder” musicali. Il romanzo breve di Kevin McAlea ha invece ancora un capitolo in serbo per noi, ed è una pagina di storia: il 14 luglio del 1987 i suoi Barclay James Harvest saranno il primo gruppo rock anglosassone a suonare a Berlino Est. Ci arriveremo. Ma prima il nostro viaggio ha in programma un’altra fermata. Giugno 1987, si torna davanti al Reichstag. Il Muro è lì a due passi, e questa volta riceverà una spallata che lo farà tremare. 

 

Successo senza confini

La versione inglese bissa il successo, e vola al primo posto in Gran Bretagna, Irlanda e Canada, ma gli stessi Nena ne prendono le distanze: nella nuova veste british la loro feroce presa per i fondelli dell’ottusità militarista – diventata un inno per i giovani tedeschi - gli sembra sfumare in un motivetto un po’ sciocco. Ma la partita è già vinta: quei palloncini, liberati da un gesto di Mick Jagger e intercettati dalla fantasia di uno spettatore curioso, sono ormai volati in cima a tutte le classifiche. I Nena non ripeteranno più un successo simile. Possiamo abbandonarli qui, lasciarli come una nota a pie’ di pagina nel lungo romanzo delle “one hit wonder” musicali. Il romanzo breve di Kevin McAlea ha invece ancora un capitolo in serbo per noi, ed è una pagina di storia: il 14 luglio del 1987 i suoi Barclay James Harvest saranno il primo gruppo rock anglosassone a suonare a Berlino Est. Ci arriveremo. Ma prima il nostro viaggio ha in programma un’altra fermata. Giugno 1987, si torna davanti al Reichstag. Il Muro è lì a due passi, e questa volta riceverà una spallata che lo farà tremare. 

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