Alessia Piperno, cosa si sa dell’arresto in Iran e del carcere di Evin dove era detenuta

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La travel blogger si trovava nell'istituto penitenziario di Teheran tra i prigionieri politici e i dissidenti del governo iraniano. I motivi dell’arresto, avvenuto a fine settembre, non sono mai stati comunicati. Il 10 novembre è stata rilasciata. Le associazioni per i diritti umani descrivono la prigione di Evin come un luogo di torture, stupri e anche massacri, nonostante le smentite delle autorità del Paese

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Alessia Piperno è stata liberata ed è tornata in Italia. La ragazza italiana è stata detenuta a Teheran per settimane, in una cella dell'istituto penitenziario di Evin tra prigionieri politici e dissidenti del governo iraniano. I motivi del suo arresto sono ancora ignoti. La travel blogger romana, negli ultimi giorni prima di entrare nella prigione di Teheran, aveva scritto alcuni messaggi social che non sono passati inosservati a chi dall'inizio monitora le proteste scaturite dall'uccisione di Mahsa Amini. E proprio quelle parole sui social potrebbero aver rappresentato il pretesto per arrestarla per chi a Teheran punta a politicizzare la vicenda, a prescindere dalle responsabilità e dalle circostanze che hanno determinato la carcerazione (LO SPECIALE SULLE PROTESTE IN IRAN). 

I motivi dell’arresto sono ignoti

La strada per la liberazione di Piperno è stata lunga. Il lavoro è durato oltre un mese e si è mosso su un 'doppio' canale: quello della diplomazia e quello dei servizi d'intelligence. Non molto per il momento è stato ricostruito sulla sua permanenza del carcere di Evin. Secondo quanto si apprende, la 30enne era stata messa in una cella con un'altra donna. La diplomazia italiana avrebbe monitorato con attenzione le sue condizioni e il trattamento a lei riservato per tutto il tempo in cui è rimasta rinchiusa in carcere. La giovane viaggiatrice era entrata regolarmente nel Paese, dove - al momento dell'arresto - soggiornava già da due mesi e mezzo. Un'ipotesi sui motivi del suo arresto è che fosse stata fermata a causa di problemi con il visto oppure perché nel suo ostello si era rifugiato chi era tra le fila delle proteste studentesche che infiammano il Paese. Alcune tracce, seppur non sufficienti a dare risposte, sono nei suoi appunti di viaggio e nei suoi spostamenti. Si sa che Alessia è stata per un periodo anche nel Kurdistan iraniano, una zona che viene costantemente monitorata per via delle istanze anti regime. 

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Cosa è successo

La situazione per Piperno comincia a complicarsi dal 14 settembre, data di scadenza del visto di soggiorno della blogger, come confermava lei stessa in un post, intenzionata a tornare in Pakistan ma impossibilitata per il permesso non ancora arrivato: "Mi sta dicendo malissimo in Iran - scriveva - non c'è affinità perché viaggiare qui per una donna sola non è semplice anche se non ho mai avuto paura. Me ne voglio andare, anche se mi stanno cacciando loro. Sono andata a chiedere di rinnovare il visto, non mi hanno nemmeno guardata in faccia e mi hanno detto solo rejected, richiesta respinta, quindi entro mercoledì me ne devo andare". Aveva cercato un bus ma per via di una festività i pullman erano tutti bloccati. Poi - racconta nel suo diario - "mentre camminavo disperata per la stazione, un signore dolcissimo che parlava inglese mi ha chiesto se mi serviva una mano. Gli ho spiegato il problema del visto, lui mi ha detto di stare tranquilla: 'Domani andiamo insieme all'ufficio e ti aiuto io a farti rinnovare il visto'". E così, in attesa del lasciapassare dal Pakistan, Alessia Piperno aveva ottenuto di restare fino a metà ottobre ancora in Iran, dove raccontava su Instagram delle manifestazioni di piazza e di come un giorno nel suo ostello erano arrivate alcune persone per chiedere loro aiuto, spaventati dagli scontri. Il 28 settembre la situazione precipita. Scatta l'arresto e il trasferimento ad Evin.

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Cosa sappiamo del carcere di Evin

Evin è una prigione nota per i metodi particolarmente crudeli secondo i racconti e le testimonianze dei fuoriusciti, che parlano di esecuzioni - molte finte e messe in atto per fare pressioni psicologiche sui prigionieri - pestaggi e torture. Chi conosce quel carcere spiega che l'istituto è diviso in tre strutture: una è per i detenuti comuni, un'altra è nelle mani dell'intelligence iraniana, che è direttamente collegata alla 'sezione 209', specifica per quei detenuti politici, anche stranieri, che vengono arrestati. Quest'ultima in queste settimane è molto affollata a causa degli arresti dovuti alle agitazioni scatenate dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente il velo. Il carcere di Evin, nel nord della capitale iraniana Teheran, è conosciuto anche come la prigione dei dissidenti politici. Proprio lì erano detenuti migliaia di oppositori uccisi nelle esecuzioni di massa del 1988, dopo il via libera dato da una commissione di cui faceva parta anche l'attuale presidente Ebrahim Raisi, all'epoca vice procuratore di Teheran.

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Carcere tristemente famoso per i maltrattamenti ai detenuti

Fondato nel 1972, il penitenziario era famoso per i maltrattamenti dei prigionieri già prima della Rivoluzione islamica del 1979 e ha mantenuto la sua tragica fama anche nei quarant'anni del regime degli ayatollah. Soprannominato anche 'Università Evin' per i tanti studenti e intellettuali che vi sono rinchiusi, il carcere è regolarmente al centro di denunce da parte di associazioni per i diritti umani che lo descrivono come un luogo di torture, stupri e anche massacri, nonostante le smentite delle autorità del Paese. In vari rapporti di Amnesty International, pubblicati negli ultimi anni, sono state documentate "frustate, finte esecuzioni, waterboarding, violenze sessuali, sospensioni per gli arti, ingerimento forzato di sostanze chimiche e diniego di cure mediche". Mentre l'anno scorso alcuni attivisti sono riusciti ad entrare in possesso, e diffondere, video delle telecamere di sicurezza della prigione che mostrano sovraffollamento e pestaggi. La prigione di Teheran è anche il luogo dove spesso vengono messi in custodia stranieri o iraniani con doppia cittadinanza, come la britannica iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, rilasciata a marzo di quest'anno dopo 6 anni di carcerazione in seguito a una condanna per "propaganda".

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