Tutte le forme dell’odio di Trump per la stampa

Sarà per pigrizia, ma voglio cedere l’incipit a Chris Lehmann, di The Nation. “Mentre i numeri relativi al consenso per Donald Trump continuano decisamente a calare – per la prima volta si registra una maggioranza di uomini che disapprova il suo operato – il Presidente ha lanciato la crociata tipica di tutti i demagoghi di destra quando perdono il favore del pubblico: una guerra culturale contro la stampa”. La Casa Bianca ha inaugurato un’apposita sezione del proprio sito dedicata a mettere alla berlina testate e giornalisti colpevoli, a suo dire, di rappresentare i fatti in maniera errata o ingannevole. Il titolo in cima alla pagina è eloquente: “Fuorvianti. Parziali. Beccati”. L’obiettivo è condannare al pubblico ludibrio i “media offenders” della settimana. L’esordio della rubrica, se vogliamo definirla così, è dedicato al caso dei sei veterani ora membri del partito democratico: in un video gli ex militari hanno ricordato a chi ancora veste la divisa che la legge permette loro di ignorare eventuali ordini contrari alla legge e alla Costituzione. Dopo la pubblicazione della clip Trump ha scritto su Truth che “ognuno di questi traditori della nostra Nazione dovrebbe essere ARRESTATO E PROCESSATO” . In seguito ha aggiunto che si tratta di un comportamento “punibile con la MORTE” e ha condiviso il post di un utente convinto che i responsabili andrebbero impiccati “PERCHÈ GEORGE WASHINGTON LO AVREBBE FATTO” La Casa Bianca sostiene che diversi media abbiano “insinuato in modo sovversivo che il Presidente Trump ha impartito ordini illegali ai militari". Al di là di corsivi ed editoriali, in realtà, nelle loro cronache di giornata le testate statunitensi si sono limitate a riportare i fatti, e dunque che i sei veterani democratici sembravano insinuare, senza mai dirlo esplicitamente, che alcuni ordini di Trump fossero illegali. Su alcuni giornali ho anche letto critiche esplicite ai parlamentari per il fatto di non essere scesi nel dettaglio, peccando così di scarso coraggio o di eccessivo allarmismo . Qui conviene aprire una parentesi: dichiarare, come fa la Casa Bianca, che gli ordini di Trump sono tutti perfettamente legali è comprensibile e forse legittimo, ma fuorviante, perché – pur essendo le cause ancora in corso - diversi giudici hanno sostenuto l’esatto contrario in più di un’occasione. Chiusa parentesi. Quando nello Studio Ovale, di fronte al principe saudita bin Salman, la giornalista della ABC Mary Bruce ha tirato fuori la storia dell’omicidio Kashoggi, Trump l’ha ricoperta di insulti per aver “messo in imbarazzo un ospite” . Trump vuole giornalisti che non mettano in imbarazzo nessuno dei suoi amici, ignorando che il compito di un giornalista è mettere in imbarazzo tutti, o per lo meno i potenti. “La nuova pagina web della Casa Bianca”, ha scritto il Washington Post, “è l'ultima espressione delle critiche di Trump ai media tradizionali, espresse nelle cause legali in corso contro il Wall Street Journal e il New York Times, negli accordi di alto profilo con ABC e CBS e in una raffica di insulti alle organizzazioni giornalistiche che da tempo definisce "nemiche del popolo". Solo negli ultimi tempi Trump ha zittito una cronista definendola “porcellina” , ha dato della “reporter di quart’ordine” a una giornalista del New York Times, ne ha chiamata stupida un’altra perché si era permessa di fare una domanda. Casualmente, o forse no, si tratta sempre di donne. Il Committee to Protect Journalists si augura che “Questa ultima mossa dell’amministrazione Trump possa essere un campanello d’allarme per gli americani: i soldi dei contribuenti vengono usati per reprimere la libertà di parola, invece che per incoraggiarla”. Di campanelli, per la verità, ne sono suonati già parecchi. A cento giorni dall’insediamento di Trump la sezione nordamericana di Reporters Sans Frontières ha messo in fila i numeri della guerra contro i giornalisti. Eccoli. 427 milioni: l’audience settimanale delle testate colpite dalla decisione di eliminare la US Agency for Global Media ; oltre ottomila: le pagine web facenti capo al governo federale soppresse dall’Amministrazione, con una scelta che ha privato i cronisti di dati e fonti di informazione essenziali; 1,6: la spesa media in dollari che ogni americano paga ogni anno attraverso le tasse per finanziare l’informazione pubblica, oggetto di tagli giustificati con la necessità di ridurre i costi; 13: gli individui graziati da Trump dopo essere stati condannati per aver aggredito i reporter nel corso dell’assalto al Campidoglio del 2021; 64: i commenti denigratori rivolti da Trump ai media via Truth . Se si osserva il quadro generale”, commentò all’epoca il Direttore Esecutivo di RSF Nord America, “la dinamica dei colpi alla libertà di stampa è piuttosto chiara”. L’undici febbraio, meno di un mese dopo il giuramento, l’Associated Press si vide negare l’accredito per gli eventi organizzati alla Casa Bianca. L’agenzia di stampa si ostinava ad utilizzare la locuzione “Golfo del Messico”, che Trump aveva sostituito con “Golfo d’America”. Dopo un’agguerrita battaglia legale la AP ha recuperato il suo accredito, ma resta esclusa da determinati eventi. A ottobre sono entrate in vigore le nuove norme imposte dal Pentagono ai giornalisti, costretti a firmare un modulo di ventuno pagine che stabilisce pesanti restrizioni alle loro attività. Il “muro della vergogna” eretto online dall’Amministrazione sul sito della Casa Bianca suscita indignazione, ma al di là del singolo caso ciò che colpisce è come il Presidente pretenda dai media assoluta obbedienza: qui non si critica il fatto che alcuni giornalisti abbiano dato ragione ai democratici, qui si critica il fatto che alcuni giornalisti non abbiano dato esplicitamente ragione al Presidente. “Democratici incitano i militari alla sedizione, un reato da pena capitale”: ecco un titolo che sarebbe piaciuto alla Casa Bianca. Trump vuole giornalisti imparziali, purché siano imparziali dalla parte giusta. La verità si separa dai fatti, tanto che oggi si può fondare un social media, chiamarlo Truth e metterci dentro qualunque cosa. Diversi commentatori, in questi ultimi anni, hanno parlato di gaslighting sociale. Il gaslighting è la manipolazione con cui si costringe una persona a mettere pesantemente in discussione la propria percezione della realtà. Il termine deriva da un film degli anni Quaranta in cui un marito disonesto, con una serie di stratagemmi, spinge la ricca moglie a credersi pazza, in modo da poterla derubare. Potrei sbagliare, ma la prima a usare il termine in relazione a Donald Trump è stata Susan Dominus sul New York Times, nell’ormai lontano settembre del 2016. “Trump cerca di manipolare un intero Paese quando gioca con la verità in modo superficiale o insiste su connessioni che sfidano la logica”. Non essendo uno psicologo ho gironzolato su internet saltellando da una definizione all’altra di gaslighter. Quasi tutte le fonti concordano nel tracciare il profilo di un manipolatore che dice sfacciatamente bugie e nega di averle dette, anche di fronte all’evidenza, che fa promesse sapendo di non poterle mantenere, che non dà peso alle parole, che crea confusione nelle persone e cerca di metterle l’una contro l’altra per sfruttare le loro divisioni. “I fatti stanno diventando ogni giorno meno sacri negli Stati Uniti di Donald Trump”, ha scritto il Guardian. “Molti dei suoi sostenitori ora negano l'esistenza stessa della verità. Per loro, le prove scomode sono per definizione "parzialità". I seguaci di Trump e coloro che temono la sua vendetta si stanno mettendo rapidamente in linea: media, università e quel famigerato reggimento di miliardari della tecnologia che lo ha seguito fin dal giorno dell'insediamento”. Gli attacchi dell’Amministrazione ai media spaventano, ma a spaventarci dovrebbero essere soprattutto le picconate inferte contro ciò su cui il buon giornalismo si fonda: l’idea condivisa che esistano i fatti e che sulla base dei fatti sia possibile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.

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Federico Leoni