Sarajevo safari, l'ex sindaca Karic: "Un colpo duro da digerire"

Immaginiamo dei cittadini, dei civili, tra cui anche cittadini italiani, che durante una delle guerre più sanguinose in Europa, quella nella ex-Jugoslavia, paghino per poter sparare ai civili: anziani, donne, bambini. Con uno spietato tariffario in cui veniva stabilita la cifra per ogni “abbattimento”. Accettare una storia del genere è troppo, lo ribadisce Benjamina Karic, ex sindaca della città martire per eccellenza, la Sarajevo della “sniper alley” - la strada dei cecchini, che nel ’22 ha presentato una denuncia per fare luce sulla vicenda. Una storia su cui la procura di Milano ha aperto un’inchiesta a seguito dell’esposto presentato dallo scrittore Ezio Gavazzeni e per cui la ex sindaca si è detta disponibile a testimoniare. Per questo l’abbiamo contattata, per raccontarci come è arrivata a questa decisione. Lei ha vissuto l’assedio di Sarajevo molto da giovane. Che ricordi ha di quel periodo? Sono nata nel 1991 a Grbavica e ho passato l’assedio di Sarajevo da bambina, letteralmente sulla linea del fronte. I miei primi ricordi sono segnati dalla paura, dalla mancanza di tutto e dalla sensazione costante di essere in pericolo. Ricordo il rumore dei bombardamenti e la forza della mia famiglia e dei vicini. Tutto questo mi è rimasto dentro e ha formato il mio senso di giustizia e di responsabilità. Qual è stata la sua prima reazione quando ha scoperto questa storia dopo aver visto il documentario “Sarajevo Safari”? Sono rimasta sconvolta e profondamente indignata. Sapevo degli attacchi dei cecchini sui civili, ma l’idea che degli stranieri pagassero per sparare a persone innocenti come fosse un gioco… era inconcepibile. È una crudeltà che oltrepassa qualsiasi limite morale. All’epoca ero sindaca di Sarajevo e ho sentito subito il dovere di agire: ho presentato una denuncia alla Procura della Bosnia ed Erzegovina contro ignoti che avevano ucciso cittadini di Sarajevo. Sembra che i servizi di sicurezza italiani fossero già a conoscenza di questa storia 30 anni fa e l’abbiano bloccata. Perché pensa che non abbiano approfondito? Credo che oggi, con l’attenzione pubblica tornata sul caso e con nuove azioni legali, abbiamo finalmente la possibilità di rimediare a quella mancanza. Sono molto grata al giornalista italiano Ezio Gavazzeni che ha riportato la vicenda alla luce. Che ostacoli ha incontrato finora, se ce ne sono stati, nella ricerca della verità su questa storia? L’ostacolo principale è stata l’inerzia delle istituzioni. Ho presentato la denuncia nel 2022, ma per anni non si è visto alcun progresso concreto. Ora hanno confermato che un’indagine è in corso, ma continuo a insistere perché si vada avanti. Ha detto che è disponibile a testimoniare. Come ha ricordato, era molto giovane allora. Quali documenti o testimonianze ha raccolto lei o l’amministrazione della città di Sarajevo che potrebbero essere utili all’indagine? Io ero troppo piccola per vedere queste cose in prima persona, ma mi sono impegnata per far arrivare alle autorità tutte le testimonianze e i documenti rilevanti. La più importante è quella di John Jordan, un pompiere americano che prestò servizio con l’UNPROFOR a Sarajevo e vide arrivare questi “cacciatori” stranieri. La sua testimonianza è stata accettata anche nei processi del Tribunale dell’Aja ed è ora allegata alla denuncia presentata sia in Bosnia sia in Italia. Inoltre sono in contatto con giuristi e storici che stanno aiutando a raccogliere altro materiale. Perché, secondo lei, questa storia è rimasta così poco discussa o nascosta fino ad ora? E quali misure servono per assicurare alla giustizia tutti i responsabili? Credo che la storia fosse troppo dura da accettare. L’idea che esseri umani siano stati “cacciati” per divertimento in una città europea negli anni ’90 mette in crisi la nostra idea di civiltà. È stato più facile trattarla come una voce o un’esagerazione. Ma ora, con testimonianze credibili e indagini internazionali, la verità sta emergendo. Per arrivare alla giustizia serve una piena collaborazione tra autorità bosniache e italiane, protezione dei testimoni e la volontà di seguire ogni pista, anche quelle politicamente scomode. Che messaggio vuole mandare alle famiglie delle possibili vittime, alla città di Sarajevo e al pubblico italiano riguardo questo caso? E come farà in modo che non resti solo “una denuncia”, ma un vero percorso verso la responsabilità? Alle famiglie delle vittime voglio dire che le vedo, le ascolto e che non smetterò di cercare giustizia. Alla gente di Sarajevo: questa città ha sofferto l’inimmaginabile, ma non permetteremo che il nostro dolore venga dimenticato o minimizzato. Al pubblico italiano chiedo solidarietà e coraggio: non si tratta di accusare un Paese, ma di far emergere la verità e difendere la dignità della vita umana. Continuerò a lavorare con le istituzioni, i media e la società civile affinché questo caso vada avanti: non come gesto simbolico, ma come un vero cammino verso la giustizia.

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Gianluca Ales