Perché il voto sulla Cisgiordania è un problema per Netanyahu

Ieri alla Knesset, il parlamento israeliano, la destra religiosa ha dato in un colpo solo uno schiaffo sia al piano in 20 punti di Donald Trump, che non ha mai condiviso né sostenuto, sia al premier Benjamin Netanyahu. Con un voto in aula, infatti, i partiti hanno approvato in prima lettura l’annessione della Cisgiordania da parte dello Stato ebraico, una precisa linea rossa stabilita dal presidente americano in più di un’occasione. L’annessione della Cisgiordania, qualora si verificasse, sancirebbe infatti la fine di ogni iniziativa diplomatica in Terra Santa. In primo luogo perché costituirebbe una violazione di quel che rimane degli accordi di Oslo, in secondo luogo perché sancirebbe la fine di ogni aspirazione alla creazione di uno Stato Palestinese. Da tempo la destra religiosa israeliana punta a riprendere il controllo dell’area, sia con i continui attacchi dei coloni, sia con raid armati moltiplicatisi nel corso degli ultimi mesi. La scorsa estate poi, il governo di Israele ha deciso l’avvio dell’Insediamento E1, tra Gerusalemme e l'insediamento di coloni Ma'ale Adumim, spezzando di fatto in due il territorio. Ma nonostante la volontà di controllare l’area sia più che esplicita, non è detto che questo voto abbia il peso per cambiare le cose. Pur essendo una decisione clamorosa, occorre chiarire alcune cose in merito: la prima è che si tratta di una vittoria di misura. La Knesset ha 120 seggi, ieri hanno votato in meno di cinquanta e la risoluzione è passata per un solo voto, 25 a 24. Il voto determinante è stato espresso da Yuli Edelstein, un deputato infedele del Likud, il partito di Netanyahu, da tempo in rotta con il suo leader. La seconda cosa che vale la pena dire è che il voto di questa risoluzione difficilmente si tradurrà in realtà: il sistema israeliano prevede quattro voti su quattro letture in aula, e questa è solo la prima. Difficilmente il testo passerà altre votazioni. Nonostante questo, anzi, forse proprio per questo, il senso del voto di ieri non è tanto militare, quanto politico. E anche se questa risoluzione non dovesse effettivamente tradursi in una presa della Cisgiordania, il fatto che questo sia avvenuto dice molto della situazione politica di Israele e del sentire di parte del parlamento rispetto al cessate il fuoco. Per capire perché più che un attacco ai palestinesi di Cisgiordania il voto di ieri è un attacco diretto alle leadership di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu, occorre fare un passo indietro e tornare allo scorso settembre, quando Donald Trump, parlando con la stampa a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU aveva dichiarato "Non permetterò a Israele di annettere la Cisgiordania. No. Non lo permetterò. Non accadrà. Ne abbiamo abbastanza. È ora di fermarci, ok?". Questo dictat trumpiano è stato evidentemente ignorato. Non da Netanyahu, che anzi, aveva dato indicazione al suo partito di opporsi al piano, ma dall’estrema destra religiosa. In particolare, a presentare il piano all’aula è stato Avi Maoz, leader del partito di estrema destra Noam che ha raccolto il consenso di due partiti dell’esecutivo: il Jewish Power, guidato dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, e Religious Zionism, del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Nonostante nelle ore successive al voto, il Premier abbia bloccato l’intera operazione “ordinando di sospendere l'avanzamento dei progetti di legge per l'annessione parziale o totale della Cisgiordania fino a nuovo avviso”, le conseguenze politiche del voto sono state fragorose. La Casa Bianca ha ribadito la sua completa contrarietà all’operazione, tanto che Trump, in un’intervista ha detto che “l'annessione israeliana della Cisgiordania non avverrà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi. Se avvenisse [Israele] perderebbe tutto il sostegno degli Stati Uniti". Toni persino più duri sono stati usati da J.D. Vance, che aveva appena lasciato Israele e che ha ribadito che la linea dell’amministrazione USA resta quella di forte opposizione all’annessione della Cisgiordania e ha definito “offensivo” il voto della Knesset. Infine al coro di no degli Stati Uniti si è aggiunta la voce del segretario di Stato Marco Rubio che ha affermato che un voto del genere potrebbe essere ‘controproducente’ per gli accordi di pace. Contrari anche i Paesi Arabi, in particolare Arabia Saudita e Qatar. E proprio questi ultimi due sono stati al centro di un ennesimo incidente diplomatico che potrebbe mettere a repentaglio l’accordo di pace. “Il ministro delle Finanze israeliano - riporta Haaretz ha affermato che Israele dovrebbe rifiutare la normalizzazione dei rapporti con l'Arabia Saudita se questa dovesse condizionarla alla creazione di uno Stato palestinese: "Se l'Arabia Saudita ci dice che si tratta di normalizzazione in cambio di uno Stato palestinese, allora no, grazie, amici miei. Continuate a cavalcare i vostri cammelli”. Parole offensive, pronunciate in un momento delicato. E che lasciano intendere come l’obiettivo principale della destra israeliana, in questo momento, non sia né la Cisgiordania, né la Striscia di Gaza. Ma la fine dell’accordo di pace.

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Luciana Grosso