Perché Vance ha voluto mettere in sicurezza il cessate il fuoco a Gaza

A dieci giorno dall’entrata in vigore del cessate il fuoco a Gaza, il vicepresidente americano JD Vance, si è recato in Israele insieme a Jared Kushner, il genero del presidente che, pur non avendo cariche ufficiali, è stato l’architetto dell’intera operazione. Formalmente la visita di Vance non aveva una funzione operativa, né aveva lo scopo di risolvere un problema. Anzi semmai quello di certificare il successo del piano di pace imposto da Trump e di ribadire la vicinanza degli USA a Israele. Nonostante questo però, quel che è probabile è che Vance si sia recato in Israele per le ragioni opposte, ossia perché il piano non sta funzionando, il cessate il fuoco è fragile e Israele sembra mordere il freno, intenzionato a riprendere gli attacchi su larga scala . La visita di Vance, dunque, si spiega non tanto con la volontà di contemplare un capolavoro della diplomazia trumpiana quanto con quella di voler mettere in sicurezza un piano di pace che, già dalle sue frettolose fondamenta, è molto fragile. “Non è facile - ha detto alla stampa il vicepresidente - Non ho mai detto che fosse facile. Ma sono ottimista sul fatto che il cessate il fuoco reggerà e che potremo effettivamente costruire un futuro migliore per l'intero Medio Oriente. Ma questo richiederà un po' di lavoro". Questo ‘lavoro’ probabilmente è quello che non è stato fatto in sede di stipula del cessate il fuoco, quando si è frettolosamente deciso di interrompere le ostilità in cambio della restituzione degli ostaggi. Ma si è trascurato di stabilire cosa sarebbe successo in caso di violazione degli accordi, e soprattutto con quali tempi e modi questi andassero rispettati. Così già in questa prima fase, all’appello degli impegni rispettati, ne mancano almeno quattro: due da parte di Israele, due da parte di Hamas. Israele non ha cessato del tutto gli attacchi, anzi ne ha compiuti di nuovi, anche se, a dire dell’IDF questi sarebbero avvenuti in risposta ad alcune provocazioni di Hamas. Allo stesso modo, Tel Aviv avrebbe aspettato più di una settimana ad aprire il valico di Rafah, fondamentale per l’arrivo di aiuti, e anche dopo aver consentito controvoglia alla sua riapertura, starebbe ostacolando gli ingressi dei camion carichi di cibo e medicine. Anche dal fronte di Hamas però risultano violazioni, o quanto meno letture furbe, che approfittano delle vaghezze del piano trumpiano. La prima di queste mancanze, ma per certi aspetti la meno grave, sta nel fatto che all’appello dei corpi degli ostaggi da restituire ad Israele ne mancherebbero ancora una decina. Ma questo ritardo, seppure abbia irritato e irriti ancora, molto, gli israeliani, è stato fatto digerire dai negoziatori arabi a Tel Aviv, giustificandolo con evidenti difficoltà logistiche e mostrando disponibilità a collaborare con Hamas nella ricerca dei luoghi di sepoltura nascosti dalle macerie. La seconda mancanza, molto più grave soprattutto nelle possibili conseguenze, è il fatto che Hamas non abbia ancora restituito le sue armi. Il piano, in realtà, parlava di ‘immediata demilitarizzazione della Striscia’, ma per ora di consegna di armi non si è vista l’ombra. E persino Trump, pochi giorni fa, ha detto di non volere imporre ad Hamas tempi particolarmente stretti. Nel frattempo, però, le armi che Hamas non ha ancora restituito, sono state usate, e anche con una certa abbondanza. Per provocare le truppe IDF, e innescare la catena di provocazioni che a lungo andare potrebbe far cadere questo fragile cessate il fuoco. E per regolare i conti all’interno della Striscia stessa, dove negli ultimi giorni si sono viste rappresaglie e spedizioni punitive verso presunti traditori della causa di Hamas. La posta in gioco, all’interno della Striscia, è infatti molto alta. Secondo il Piano occorrerà trovare un nuovo governo tecnocratico, i cui nomi sono ancora tutti da definire, che reggerà Gaza sotto la supervisione di Trump. Ma ancora non è chiaro come e quanto Hamas sarà disposta a lasciare la Striscia, con buona pace di quel che ha firmato. Allo stesso modo, anche per Washington la posta è altissima, sia dal punto di vista politico che economico. Da un lato Trump ha speso tutto il suo capitale politico in questa operazione, cui ha affidato la sua eredità storica. Dall’altro più la pace reggerà e si farà stabile, più sarà possibile la ricostruzione, faccenda che alle imprese americane sta molto a cuore. Forse più della pace stessa. E se per portare a termine un’operazione immobiliare da 70 miliardi, tocca essere vaghi su un accordo di pace, pazienza: questo è un rischio che l’amministrazione Trump sembra disposto a correre.

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Luciana Grosso