Perché la pace in Medio Oriente è nelle mani dei Paesi arabi

La voglia di voltare pagina c’è dappertutto in Medioriente. Ce l’hanno gli israeliani e i palestinesi, entrambi provati e dilaniati dal conflitto e terrorizzati di tornare a scontrarsi. Ce l’hanno i libanesi e i siriani. I primi ostaggio di Hezbollah e vittime dello scontro tra questi e Israele, i secondi reduci da una guerra da mezzo milione di morti, un cambio di regime e stufi di subire raid israeliani contro installazioni sciite sul loro territorio. Ma la voglia di voltare pagina e, diciamolo francamente, di far soldi e affari è diffusa anche nei paesi del Golfo. In Qatar, in Bahrein, negli Emirati Arabi, ed è la stella polare che muove le scelte del principe saudita Bin Salman. Un nuovo Medioriente per riprendersi il centro della scena politica regionale o cercare di consolidare la propria centralità è anche ciò che cercano l’Egitto di Al Sisi e la Turchia di Erdogan. Questa è la vera novità della svolta di questi giorni nel conflitto a Gaza. Questa, oltre alla imprevedibile, ed a volte folle, strategia diplomatica di Trump, è la base su cui poter fondare la speranza che qualcosa succeda veramente e che l’accordo di cessate il fuoco e di scambio dei prigionieri si trasformi in qualcosa di più, nell’inizio cioè di un periodo di intese. Senza il volere, la pressione e l’assenso dei paesi arabi la pace tra israeliani e palestinesi non c’è, non ci sarà e, la storia lo dimostra, non c’è mai stata. Il sì di Hamas al piano Trump e le chance che questo ha di reggere sono in grandissima parte conseguenza dell’atteggiamento di Turchia, Qatar ed Egitto. Senza un aut aut posto all’ultimo leader di Hamas sopravvissuto Khalil al Hayya, i terroristi islamici di Gaza non avrebbero accettato. Secondo una ricostruzione ben documentata del Wall Street Journal, solo pochi giorni prima Hamas aveva detto di no allo stesso identico piano. La minaccia probabile di perdere l’asilo a Doha, gli appoggi in Turchia, la non ostilità dell’Egitto e, specialmente, gli enormi finanziamenti che ricevono da donatori privati, Qatar ed Iran, ha convinto il movimento. Spesso le sorti dei palestinesi sono state riflesso e conseguenza delle divisioni del mondo arabo e musulmano. Lo stesso attacco del 7 ottobre che ha dato inizio a questa guerra è stato anche frutto dell’opposizione di parte di quel mondo all’avvicinamento in corso tra Israele e Arabia Saudita. L’Iran ha armato Hamas, questo ha agito, Israele ha reagito come ci si aspettava e si prevedeva, e il gelo tra Gerusalemme e il mondo arabo è calato. Ora però, dopo decine di migliaia di morti, Gaza distrutta, e due popoli ancora più risentiti e sfiduciati l’uno con l’altro, è tempo di ricominciare. Ma visto che in Israele, ancor di più dopo il 7 ottobre, nessuno nel governo e pochi nell’opinione pubblica vogliono sentire parlare di uno Stato palestinese, e visto che il risentimento dei palestinesi per il dolore e la distruzione di Gaza, e il rifiuto di Hamas di gettare le armi ed andare in esilio sono combustibili in grado di infiammare ancora la regione, c’è bisogno di qualcuno da fuori che mantenga la pressione. È necessario, insomma, che chi fomenta il terrore non abbia interesse economico per farlo. E chi rifiuta una prospettiva di convivenza sia costretto da poteri più forti a desistere. Ora, se su Israele l’unico che può esercitare questo potere è il governo di Washington, o meglio, Donald Trump, su Hamas e gli altri gruppi di miliziani palestinesi sono gli Stati Arabi e Islamici. L’attacco israeliano a Teheran, l’aiuto attivo fornito da Washington e un Iran di fatto umiliato e indebolito dalle azioni di intelligence israeliana anche contro Hezbollah, hanno convinto gli Stati della regione che non c’erano linee rosse invalicabili. Netanyahu e Trump erano disposti ad andare ovunque fino in fondo. Il raid israeliano su Doha lo ha confermato. E nessuno nel golfo aveva voglia, per difendere Hamas, o anche in nome della causa palestinese, di rischiare di essere bombardato. Tradizionalmente gli Stati arabi non sono molto generosi nei confronti dei diritti dei palestinesi… D’altra parte, una regione pacificata, un nuovo impulso agli accordi di Abramo già firmati da Israele con Bahrein, Emirati e Marocco potrebbe portare enormi benefici economici e politici a questi paesi, anche in termini di rapporti e affari con l’amministrazione Trump. Una pace tra Israele e l’Arabia Saudita, tra lo Stato con Gerusalemme e quello con La Mecca e Medina, tradizionalmente guida delle masse arabe, sarebbe simbolicamente ed economicamente rivoluzionario per tutta la regione. E sancirebbe la definitiva emarginazione di un Iran sempre più in crisi. Questa è la posta in gioco. Per questo gli Stati arabi potrebbero accettare di impegnarsi direttamente nell’amministrazione di Gaza. Per questo, sempre loro, potrebbero prendere in considerazione di garantire la sicurezza in una futura autonomia palestinese in Cisgiordania. Una simile disponibilità metterebbe all’angolo anche Netanyahu e gli estremisti di destra suoi alleati. Washington non gli consentirebbe di bloccare la rivoluzione nella regione e miliardi di ottimi affari con i paesi del golfo, Turchia ed Egitto. Tutto ciò sarà possibile? Abbiamo davanti a noi un periodo di rivoluzioni e di soluzioni eccentriche che possono fare uscire da un tunnel di violenza e disperazione un’intera regione e due popoli? Forse sì. L’alternativa, probabile del resto, è un continuo déjà-vu. Fatto di tregue interrotte, raid israeliani, attacchi di Hamas e infinite accuse e rivendicazioni reciproche, fino a chissà quando.

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Renato Coen