Gli Ainu, il popolo indigeno dimenticato del Giappone

Gli Ainu, popolazione indigena del Giappone settentrionale, sono rimasti per secoli ai margini della storia e della società giapponese. Solo nel 2019 il tema è tornato alla ribalta, quando il governo di Tokyo ne ha riconosciuto ufficialmente l’esistenza. Ne abbiamo parlato con Susanna Marino, docente di Istituzioni di Cultura giapponese all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Presidente del Centro di Cultura Italia-Asia. Un popolo senza patria “Gli Ainu non hanno mai avuto un territorio, uno Stato o una patria vera e propria: si è sempre trattato di comunità autonome stanziate in territori che oggi appartengono a due Stati diversi. Oggi vivono soprattutto nell’isola di Hokkaidō”, racconta Marino, “ma fino alla Seconda guerra mondiale erano presenti anche nel sud di Sakhalin, nelle isole Kurili e nella Kamčatka russa. Inizialmente, questi territori erano denominati Ainu Moshir, “terra degli Ainu”. È solo durante il periodo Meiji che l’isola di Hokkaidō assume questo nome e i giapponesi si appropriano del territorio”. Alcuni ritrovamenti archeologici dimostrano che nel passato più remoto, alcune comunità Ainu vivevano anche nel nord di Honshū, l’isola dove oggi si trova Tokyo. In queste zone si è mantenuta a lungo una cultura di tipo neolitico e questo ha fatto sì che gli Ainu vivessero per secoli in modo molto più arretrato, sia tecnologicamente sia culturalmente, rispetto allo sviluppo che caratterizzò poi la storia del Giappone”. L’acculturazione forzata “Dalla fine del periodo Edo e durante il periodo Meiji, gli Ainu vengono progressivamente privati dei propri territori e sottoposti a un processo di assimilazione culturale”, racconta Marino. “C’è da domandarsi perché sia stata attuata un’acculturazione così brutale nei loro confronti. Purtroppo, nel periodo Meiji, il Giappone cercava di costruire un’identità moderna e gli Ainu, che vivevano come pescatori e raccoglitori, apparivano ai giapponesi come primitivi. Da qui, la loro vita cambia completamente: nel 1871 viene introdotto l’obbligo del censimento, mentre nel 1899, il governo nipponico approva una legge di protezione degli aborigeni di Hokkaidō. Tuttavia, la normativa era contraddittoria: non riconosceva gli Ainu come un’entità separata dai giapponesi”. Lingua a rischio “La prima cosa che viene cancellata è la lingua: i bambini Ainu devono andare a scuola e parlare giapponese, e l’idioma sopravvive solo tra gli anziani”, spiega Marino. “Fortunatamente, a partire dalla fine del XIX secolo negli anni ’30 iniziano una serie di studi e di presenze sul campo da parte di studiosi occidentali, alcuni mossi da curiosità etno-antropologiche, altri per motivi scientifici di vario genere. Si comincia a parlare degli Ainu come di un popolo che sta scomparendo. Fosco Maranini già dagli anni ’30 è stato uno dei precursori italiani nello studio e nella raccolta di informazioni sugli Ainu. Già dall’inizio del Novecento antropologi, sociologi e scienziati se ne occupano: è come una sorta di scoperta dell’esistenza di un popolo dimenticato, sconosciuto, quasi cancellato. La lingua rischia di estinguersi completamente, ma negli ultimi anni sono stati creati centri di studio dedicati. All’Università di Venezia, ad esempio, un docente italiano ha avviato da due-tre anni un corso di lingua Ainu. Per incentivarne l’uso anche nella vita quotidiana, alcune linee di autobus a Hokkaidō trasmettono annunci sia in giapponese che in Ainu. Sono piccoli segnali, ancora timidi, ma significativi, considerando che la lingua era rimasta per lungo tempo quasi sepolta”. Il riconoscimento e il revival culturale “Dal 1946 qualcosa cambia: con la sconfitta del Giappone e l’inizio dell’occupazione americana, nasce l’associazione degli Ainu”, spiega Marino. “Iniziano a unirsi, in modo molto timido, per cercare di rimettere insieme i pezzi. Però fino al 1991 non c’è un vero e proprio riconoscimento: la discriminazione era forte, molti si vergognavano di definirsi Ainu, si nascondevano, usavano nomi giapponesi e non avevano la possibilità di manifestarsi. Dal ’91 alcuni gruppi Ainu iniziano a contattare altre minoranze etniche nel mondo e, attraverso il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani, partecipano a incontri, riunioni e festival. Timidamente riescono un po’ a rinascere. Nel ’93 vengono riconosciuti come minoranza e come minoranza indigena, e nel ’97 viene approvata una legge per la promozione della cultura Ainu, con la creazione della Fondazione per la ricerca e la cultura Ainu. La partecipazione ai convegni internazionali organizzati dall’ONU diventa sempre più attiva, fino al 2007, quando arriva l’approvazione della legge sui popoli indigeni, che riconosce finalmente anche gli Ainu. Infine, nel 2009 il Giappone presenta una proposta di legge per la promozione delle politiche Ainu, che verrà approvata solo nel 2019. Nel 2020, a Shiraoi, nasce Upopoy, il Centro nazionale della cultura Ainu, realizzato dal governo giapponese. Su questo io sono abbastanza critica: il fatto che il governo abbia approvato la legge e si senta in dovere di creare un centro simile non cancella il lungo ritardo e la storia di discriminazioni subite. Il revival culturale è in gran parte frutto dell’iniziativa degli stessi Ainu dagli anni ’80 e ’90”. Tessuti, intagli e natura: il cuore della cultura Ainu L’identità Ainu si riconosce anche nei motivi decorativi, ricchi di simbolismo. “Le donne, storicamente legate alla produzione di manufatti tessili, hanno da sempre ricamato i tessuti con disegni e volute simmetriche o asimmetriche. Questi simboli, si ritrovano ranche sugli oggetti quotidiani incisi dagli uomini e costituiscono un leitmotiv: zona per zona, a seconda della comunità, cambiano colori e dettagli, mostrando differenze regionali. Alcuni studiosi notano richiami ad altre culture: nella zona del fiume Amur, a ovest di Sakhalin, vive una minoranza siberiana con motivi decorativi simili. C’è chi sostiene che alcuni di questi motivi ricordino simboli apparsi su antichissimi vasi di bronzo cinesi, mentre la spiegazione più accreditata li collega alle statuine votive create dalle popolazioni giapponesi nel Neolitico, con decorazioni corporee molto simili”, spiega Marino. Oggi la cultura Ainu rivive anche attraverso l’arte contemporanea: “C’è il musicista Oki”, prosegue Marino”, che utilizzando strumenti tradizionali Ainu crea musiche fusion e ha pubblicato vari album. Un altro artista, Bikki, un po’ eclettico, parte riproducendo manufatti tradizionali e poi sviluppa una serie di elementi astratti, sposando la modernità ma mantenendo vive le radici culturali. Alcune artiste donne, invece, portano avanti la tradizione del ricamo creando nuove realtà”.

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Francesca Torcasio